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Biografia

 

 

Dal libro di Giuseppe Murtas "Evaristo Madeddu", editrice "Sa Porta"- Oristano.


Evaristo Madeddu

Prefazione

  In un vortice di turbinose e scomposte sollecitazioni, attraverso i mezzi della moderna comunicazione, si compie ogni giorno un atto di pubblico imbonimento nei confronti delle persone più semplici e delle intelligenze più indifese. Oggi, alle soglie del terzo millennio cristiano, le leggi del profitto, contrabbandate come razionali ed espressione dl una sorta di neo-illuminismo, prevalgono sulla dirittura morale, e l'interpretazione della realtà, viziata da interessi di pane, mina alla radice il concetto stesso di verità e di giustizia. In una tale atmosfera di generale confusione non può, quindi, sorprendere che sulla scena della pubblica attenzione si ritrovino del personaggi di mediocre levatura e, non di raro, di squallida estrazione, illuminati a tutto campo e presentati come modelli di una nuova civiltà e di una nuova cultura. Fra tanto scadimento, cresce il disagio e la delusione delle persone sensate e diventa urgente la necessità di rifarsi gli occhi e il cuore nella contemplazione dl un paesaggio in cui il respiro si fa più leggero e lo spirito sollevato. Si sente il bisogno di ritrovare un paese in cui l'umanità, riconciliata con se stessa, sia autorizzata a credere che la virtù, la carità e la giustizia non siano fantasie irreali e pregresse, ma nobilissime e consolanti realtà. In effetti è diffuso e impellente li desiderio dl credere che la "poesia del vivere" trovi ancora, in questo nostro mondo così apparentemente dissacrato, spazio conveniente e servitori devoti. Per riscontro, scavalcando mode e costumi, saranno sempre questi irriducibili "sognatori" a ridare spessore alle realtà quotidiane, a ristabilire un rapporto fiduciario con la gente semplice e a rendere accettabile e, diciamo pure, vivibile il tormento della nostra età convulsa. Proprio questo bisogno di aria respirabile, di un tocco d'azzurro, di un credibile sogno,fanno di questa piccola biografia di Padre EVARISTO MADEDDU, fondatore della COMPAGNIA EVARISTIANI DEL SACRO CUORE un modello di vita in cui il candore, l'entusiasmo e la spiritualità che la caratterizzano, uniti alla realizzazione di un disegno perseguito con innocente tenacia, ci intrigano fino al coinvolgimento. La penna di Giuseppe Murtas, peraltro, con la perfetta conoscenza della psicologia del credente, derivante da un lungo rapporto con i problemi della vita sociale, ne ha saputo tratteggiare con maestria le linee essenziali, sfrondandole da ogni mitologia e restituendole alla vera dimensione di uomo giusto, lietamente votato alla ricerca della virtù propria e del bene altrui. Con schematica puntualizzazione l'autore ne ha saputo sottolineare l'intelligente scelta di vita e la coerenza agli ideali, testimoniate da una forza esemplare che lo ha portato a riaffermare con coraggio il diritto dello "spirito" a crescere e ad organizzarsi. Scelte ed affermazioni non scevre da rischi e malevoli interpretazioni. Le prove che hanno pesantemente accompagnato fin dall'inizio la vocazione e l'opera di P. Evaristo Madeddu confermano in modo evidente la solidità della sua fede in Dio, Padre, Provvidente ed Amico. Una fede fondata su una appassionata devozione al Cuore di Gesù, da cui trae motivo la denominazione e la consacrazione della sua Compagnia di confratelli e consorelle impegnati nell'esercizio delle virtù cristiane. La stessa fede da cui ha ricavato quella santa "ostinazione" che, pur avendolo visto chinare umilmente il capo davanti alla mano pesante che metteva a dura prova la sincerità e la rettitudine delle sue intenzioni, mai lo ha visto vacillare nell'impegno di realizzare la sua opera di fraternità Insidie e ostilità di ogni tipo, provenienti da malevolenza, incomprensioni o da irridente ignoranza, si abbatterono ripetutamente su di lui senza riuscire a fiaccarne lo spirito. Le false devozioni, le amicizie insincere, come pure le presenze miseramente interessate lungi dal mortificarlo, lo confermavano ancor più nella fiducia in Dio e nella bontà della sua opera, sottraendosi deliberatamente alla ricerca di umani consolatori. Le stesse attuali fuorvianze della sua famiglia, che, abilmente camuffate e manipolate, hanno tentato il discredito del suo nome, la spoliazione dei suoi beni e la dissoluzione della sua opera, non fanno che trascinare con accanimento, al di là della sua morte, la medesima azione vessatoria di quanti lo hanno combattuto in vita, perché il suo bene operare rappresenta una silenziosa quanto per altri versi, luminosa, denuncia dell'inerzia e dell'indifferenza. Dai suoi amici, eredi del suo mandato, Padre Evaristo reclama oggi, nella ricorrenza centenaria del suo genetliaco, altrettanta fede in Dio e altrettanta fiducia nella validità del suo messaggio, che si incarna e si ripropone visivamente nella condotta dei suoi seguaci. Credo proprio che questa GRANDE FEDE, come compendio di tutte le altre virtù, debba essere considerato il suo vero testamento spirituale: vedere in tutte le vicende del mondo la mano paterna e benedicente di DIO che guida, sorregge e conforta, nella assoluta certezza che il male, per quanto insidioso e ammantato di suggestione, non potrà prevalere sulla bontà sincera, sulla verità e sulla giustizia. Un testamento di fede, quindi, nella forza gratificante del bene, per coloro che hanno il vanto di continuare l'opera e di riviverne lo spirito. Una stimolante rivisitazione per quanti ne conservano benedetta memoria.

Clemente Caria Oristano 25 Novembre 1990

Introduzione

 Nei ricordi della mia adolescenza è impressa in modo indelebile la figura di Evaristo Madeddu o Padre Evaristo, come tutti lo chiamavano. Era amico di una signora vedova, in buoni rapporti con la mia famiglia, la cui abitazione, in Oristano, era adiacente alla nostra, tra Piazza Roma e Via Garibaldi. Io la frequentavo per giocare col figlio della signora Barbara. Avevo circa dieci anni e questo ragazzone, molto più grande di me, spilungone, era di un infantilismo inguaribile. Mi divertivano le sue fantasie di grandi gesta compiute e da compiere e le sue invenzioni per creare giochi sempre nuovi. La signora Barbara considerava "padre" Evaristo, come tante altre persone, un santo. Siamo nei primi anni trenta (1935-36, credo). Da giorni aveva preannunziato la visita del personaggio ed io mi sentii coinvolto nell'attesa. Ecco Padre Evaristo che arriva, scende dal suo calesse accompagnato da un suo confratello umile e dimesso. Lo ricordo alto, magro, in occhiali dalla montatura oscura, giacca e larghi pantaloni neri e con in testa uno di quei cappelli neri che usavano i signori: il feltro. Mi colpi la sua personalità: serio ma non altero, di parole misurate e a tutti comprensibili, sobrio nell'accettare le bevande e i dolciumi che gli venivano offerti e che per noi ragazzi era delizioso mangiare, mentre partecipavamo all'invito della prima parte della sua visita. Dalla seconda parte, riservata per "i grandi", noi eravamo esclusi. Un santo: io non capivo, per un vivente, cosa veramente significasse questa parola. Per me era comunque una persona fuori dal comune, diversa da tutti i signori che conoscevo e con un fascino misterioso che non sapevo decifrare. Diversi anni più tardi "ero studente al liceo" ebbi occasione di vederlo una seconda volta, nella case di Donigala Fenughedu, in parte costruita. Era leggermente ingrassato. Potei solamente salutano: era molto impegnato. Lo vidi circondato da un gruppo dei suoi compagni o confratelli, come lui in abito da lavoro. Ascoltavano le sue parole piene di fede e semplici, in un italiano inframmezzato da frasi in lingua sarda, seguito con estrema attenzione dai suoi, muratori, in quel momento come lui, o contadini.

Origini, Infanzia, Giovinezza.

 La terra che vede nascere Evaristo Madeddu è il Sarrabus, regione aspra nella natura ma ricca di verde, di olivastri e macchia mediterranea, coltivata nei tratti meno sassosi, cercati e sfruttati con cura meticolosa dai contadini del luogo, i più poveri. Meno poveri, anche se dall'attività più incerta, i pastori che prendono in affitto dai pochi ricchi, i pascoli. Nasce a Villaputzu, villaggio di questa regione, il 25 Novembre del 1890, da Vincenzo, fabbro, e da Angelina Corona. Villaputzu aveva la struttura sociale e la dimensione demografica non molto diversa da come lo descrive 1'Angius nel Dizionario del Casalis circa quarant'anni prima. Il più grosso ed il più ricco paese del Sarrabus. 2400 abitanti, in un territorio fertile nelle zone irrigabili. Molte le vigne, per cui la produzione del vino è la più importante, dell'agricoltura locale, oltre al grano, legumi e lino. La pastorizia più estesa della regione è la sua. Il numero degli artigiani era proporzionato a quello degli abitanti. Vincenzo era uno dei due o tre fabbri del villaggio con qualche apprendista accolto per la richiesta di un padre, che spesso, era anche compare dell'artigiano. Vincenzo è alto, forte e di carattere severo e impulsivo. Ama la sua famiglia ed il suo lavoro in cui è apprezzato anche per la cura e la finezza delle opere che esegue. La madre Angelina, molto devota ed assidua frequentatrice della chiesa parrocchiale e collaboratrice del Rettore (titolo che competeva al parroco) avrà una influenza decisiva nella formazione religiosa del piccolo Evaristo, educazione per nulla bigotta, ma molto seria che seminerà nel suo cuore il germe di una vocazione religiosa anche se non ben definita. A sette anni si avvicina per la prima volta all'Eucarestia. Il 12 ottobre del 1897, una data che Evaristo ricorderà spesso anche da grande, quando aveva già fondato la sua congregrazione del S.Cuore. La madre Angelina, a quella data era già ammalata, immobilizzata da una paralisi. Per assistere la madre Evaristo deve rinunciare al desiderio di entrare nel seminario diocesano di Lanusei e continuarvi gli studi per dedicarsi alla vita religiosa. L'unica sorella, Giulietta, che l'avrebbe sostituito in questo compito, era morta giovanissima ed i fratelli, man mano che crescono aiutano il babbo nell'officina, unica fonte per l'economia familiare. I clienti non mancano, ma i morosi nel pagare sono sempre tanti ed i più ricchi sono i peggiori. La morte della madre è una tragedia soprattutto affettiva per la famiglia ed in particolare per Evaristo. Ancora ragazzo ora lavora da fabbro anche lui col padre e gli altri fratelli, ma sono tanti i mestieri a cui si dedicherà con una sorprendente versatilità: ciabattino, sarto, figolo. Intercala le varie attività con giornate di lavoro agricolo mal retribuite, ad altre più remunerative ma più pesanti (per la sua età e la sua salute, non certo di ferro) come quelle di caricare a spalle sacchi di carbone nei bastimenti attraccati alle banchine del vicino Porto Corallo. Interrotti gli studi scolastici, nei ritagli di tempo, cura una sua cultura da autodidatta, leggendo i libri che ottiene in prestito da persone amiche o dal suo parroco che vede spesso in occasione della sua costante frequenza sacramentale. In cuore la chiamata alla vita religiosa ed alla dedizione a opere di servizio ai fratelli, non si è mai spenta anzi matura progressivamente. Nel 1911 lascia Villaputzu e i suoi, quasi una fuga, e si trasferisce a Cagliari per tentare di realizzare i suoi desideri. Prima nel Seminario poi nei vari conventi religiosi dove chiede di essere accolto non lo accettano - e qualche volta il rifiuto è drastico - per la sua posizione scolastica e quasi sempre per la sua età. Tenta inutilmente anche dai Mercedari di Bonaria e dai Cappuccini di viale Fra Ignazio.

La ricerca di una vita religiosa presso i vari ordini e congregazioni esistenti a Cagliari, la inizia appena si trova libero dall'obbligo del servizio militare. Non era stato ritenuto idoneo alla visita di leva e nei vari controlli seguenti ai quali fu sottoposto nell'ospedale militare di S. Michele. In questo periodo, per sopravvivere, lavora da cameriere in un alberghetto di via Roma e quindi alla locanda Cudrano. In questo modo risolve anche il problema di un alloggio essenziale. Servendo a tavola i clienti, nella locanda, conosce una donna sui quarant'anni che consumava i pasti, appartata e silenziosa.

Evaristo è colpito dall'amabilità di questa signora, gracile, metodica, semplice e di modi distinti. La prima cosa che sente e li accomuna è la solitudine nel piccolo mondo che li circonda.

Beniamina Piredda

 Atri aspetti in comune e non secondari, Evaristo avrà modo di scoprirli nelle conversazioni occasionali e ricercate che avrà con lei. Una affinità di sentimenti, di idee ed aspirazioni, il desiderio di ritirarsi a vita religiosa e le umiliazioni nel vedersi respinta dalle varie congregazioni per la sua malferma salute. E' più che naturale il sentimento di affetto di venerazione e di rispetto che nasce nel Madeddu per questa donna, più grande di lui di vent'anni. Si tratta di Beniamina Piredda, nata a Mandas il 15 Dicembre del 1869. I suoi genitori sono insegnanti. La madre le muore nel 1908 e Beniamina pur avendo 29 anni, si sente orfana e vede acuirsi il senso di solitudine che sempre l'accompagna. Non ha una vita propria, la salute molto cagionevole non le hanno permesso di completare gli studi ne di lavorare. Deve seguire il padre nelle varie sedi scolastiche dove insegna e non ha mai la possibilità di crearsi un ambiente di amicizie che l'aiutino. Per consiglio dei medici cambia ambiente e genere di vita. Nel periodo in cui conosce Evaristo, vive in albergo per questo tentativo di cambiamento che, in qualche modo, dovrebbe aiutarla. Pur avendo bisogno di protezione, nutre per il giovane cameriere un senso materno di protezione e ricambia il sentimento di amicizia, di stima che Evaristo sente per lei. L'amicizia tra i due sarà decisiva; con lei (e da solo) Evaristo realizzerà quell'opera che segnerà una umile ma preziosa presenza nella Chiesa sarda, con una esperienza originale di vita religiosa. Tra i due si tessono sogni e progetti che rende felice questa fase della loro vita e li ricompensa dell'amarezza per i rifiuti subiti dal mondo religioso tradizionale. Pensano ad uomini e donne di esperienze simili alle loro e che potranno riunire in una comunità cristiana che avrà un programma base simile a quello benedettino "prega e lavora". Uniranno le risorse economiche, l'attività e la ricchezza dei loro spiriti per fondare e costruire. Dopo matura riflessione e in seguito agli incoraggiamenti delle loro guide spirituali, decidono di sposarsi. Devono sopportare e superare gli ostacoli che la grettezza di certi ambienti, con sospetti e meschine mormorazioni, cerca di impedire il loro matrimonio. Nell'agosto del 1911 celebrano il matrimonio civile nel Municipio di Cagliari. Mentre Beniamina possiede qualcosa, Evaristo non può contribuire economicamente se non trovando forme di lavoro retribuito. Si dà al commercio del latte, fa l'assistente nell'ospizio dei vecchi in via Fra Ignazio. Nelle ore libere si occupa di assistere generosamente poveri e malati. Nel 1916, d'accordo con Beniamina, trasforma la propria abitazione in un pensionato che fosse il primo germe di un servizio sociale e caritativo nella linea di quanto progettavano di fare. L'anno seguente, consigliati dall'Arcivescovo di Cagliari, nella chiesa di Sant'Anna, celebrano il matrimonio religioso con particolari clausole approvate dai due contraenti e registrate nell'atto compilato dal parroco.

La parentesi della guerra.

 La guerra mondiale è nella sua fase culminante. In data 1° Dicembre del 1917 Evaristo viene chiamato alle armi, malgrado fosse stato dichiarato non idoneo, alla visita di leva. Inviato al fronte partecipa agli aspetti più drammatici dell'esperienza bellica. Per lui sarà una maturazione umana e spirituale che lascerà segni decisivi e incancellabili. Viene impegnato in mansione di infermiere ed ha modo di esercitare con grande impegno e spirito cristiano il suo servizio. Fraternamente disponibile verso tutti, ha anche l'opportunità di ottenere una chiara visione della religiosità dell'epoca. Molte amicizie umane e di uomini di fede incontrati al fronte, resteranno per lui come una grande ricchezza. Si affinerà il suo umile darsi agli altri e crescerà la comprensione e l'attenzione verso i problemi esistenziali dei fratelli.

NASCE LA "COMPAGNIA"

Rientrato a Cagliari riprende la sua ricerca di una definizione della forma di vita religiosa che intende realizzare dando corpo alla fondazione di una comunità per la quale sono da delineare programmi ed ordinare principi costitutivi. Questa ricerca durerà fino al 1923. Nel mentre riprende a lavorare. Trova impiego nelle Ferrovie Complementari e vi lavora per qualche anno. Quindi si prende particolare cura degli ammalati esercitando l'attività di infermiere. Trasforma la sua abitazione in una specie di casa di cura, frequentata da un gruppo di medici suoi amici, animati in gran parte da sentimenti religiosi. Con questi ed altri amici si ritrovano spesso, riuniti per confronti su argomenti religiosi e per pregare. L'amicizia sempre più solida che li lega e le opere di carità fatte in comune daranno l'avvio alla prima comunità religiosa. Per la sua personalità Evaristo diventa, diciamo naturalmente, guida e primo responsabile del gruppo. Le sue qualità morali vengono notate sempre più ampiamente nella Città. In vari processi, qualcuno di notevole importanza per i risvolti sociali, viene nominato giudice popolare.

Cresce il numero delle persone che lo conoscono e che lo avvicinano, raggiungendo momenti di particolare popolarità. La sua carità e la costante disponibilità verso i più poveri ed umili porta categorie di persone semplici a ricercarlo come operatore di prodigi. Qualche volta piccole folle di cagliaritani fanno ressa attorno alla sua casa. Evaristo è preso da grave disappunto ed in tutti i momenti cerca di chiarire l'equivoco. Il fenomeno, tuttavia, non sfugge all'opinione pubblica. "Il Giornale del Popolo" del 20/3/1924 si interessa di lui e del suo caso con un articolo dal titolo: "Il piccolo santo". Evaristo, leggendolo ne resta sconcertato e profondamente turbato. Forse anche per questa situazione, con la moglie decide di trasferirsi fuori Cagliari, in un località rurale e iniziare una prima esperienza con certe regole che cominciano a prendere ordine nei progetti dei due. Venduta la casa di Cagliari e i piccoli poderi di San Sperate e di Mandas, originariamente di Beniamina Piredda, depositano in pegno al Monte di Pietà del Banco di Napoli tutti i gioielli e gli oggetti preziosi con l'intento di riscattarli in seguito (cosa che non avverrà mai). La somma raggranellata sarà di lire 250.000. Con questo gruzzolo si trasferiscono a Mandas, in una vecchia casa dei Piredda.

La casa di Mandas

Come Villaputzu vede nascere Evaristo, Mandas sarà il paese di nascita della "Compagnia Evaristiani del Sacro Cuore" MANDAS, anticamente "Mandaras" è una terra che vanta radici lontane, insediamenti umani prenuragici, come hanno rivelato anche recenti scavi archeologici nel vicino territorio di Gesico. Il paese di circa 2.000 abitanti nel 1925, anno in cui il Madeddu e la Piredda fondano la prima comunità, si trova sulla sommità del piano che fa parte del gran terrazzo meridionale, al quale appartengono i vasti pianori del Sarcidano e di Monte Alussara o Cardiga. In maggioranza è costituito da famiglie contadine, con una parte minore di pastori e diversi artigiani dei più vari mestieri. Aveva già una stazione delle Ferrovie Complementari, nella linea Cagliari-Isili costruita nel 1889, poco prima della Sorgono-Arbatax, del 1890. Con un gruppo di amici diventano muratori e si danno da fare per restaurare la vecchia casa, mentre alcuni si dedicano ai lavori agricoli nel campo circostante. Le poche donne pensano alla cucina e alla lavanderia, aiutate, quando è necessario, da qualcuno degli uomini. Evaristo e Beniamina lavorano con gli altri e come gli altri. Le finalità specifiche della "Compagnia", già stabilite con l'approvazione di tutti, sono: la preparazione religiosa di tutti i membri, L'osservanza dei consigli evangelici - Preghiera, culto e pietà eucaristica e mariana - Opere di carità e di carattere sociale. In particolare queste opere di carità ed carattere sociale dovranno tendere alla educazione, istruzione, assistenza e addestramento professionale della gioventù più povera. Tra le attività sarà privilegiata quella agricola che permette un migliore inserimento nell'ambiente. Il lavoro edilizio sarà un impegno di tutti, quando si tratta di ampliare o ristrutturare ambienti e alloggi. Era il 1925. Il gruppo progressivamente si ingrandisce. Gli adulti vengono accolti facilmente. I ragazzi di Mandas o dei paesi vicini trovavano sempre le porte aperte e diversi di loro trascorrevano la giornata nella comunità, rientrando a casa per la notte. Tuttavia sia per gli adulti e ancor più per i ragazzi che chiedevano di essere ammessi come confratelli, prima di essere accettati dovevano aspettare un periodo di tempo più o meno lungo, secondo le regole stabilite in uno statuto, modificato e migliorato negli anni fino ad una stesura definitiva che avverrà negli ultimi anni quaranta. L'articolo 40 indica queste condizioni: "ottima condotta morale e religiosa, attestata dal parroco o dal superiore religioso di provenienza; - domanda scritta dell'interessato; - consenso dei genitori (o di chi ne fa le veci) per i minori - accettazione dello statuto. "La decisione veniva presa dal consiglio. La forma della maggior parte delle deliberazioni riguardanti la vita della compagnia (ufficialmente chiamata "Società laicale") era a carattere democratico, come stabilisce lo statuto, ma era ancora più largamente democratica nella pratica applicazione. L'ambito paesano di Mandas e dei paesi vicini è una cassa di risonanza non inferiore a quella di Cagliari, per cui la popolarità di P. Evaristo e della sua comunità si diffonde moltissimo nella regione.Giorno per giorno aumenta il numero di quelli che vengono a visitare, a partecipare per qualche giorno alla vita di lavoro e di preghiera della Compagnia. Aumenta nel contempo anche il numero di chi chiede di essere ammesso a farne parte. Colpisce l'originalità di questa nuova comunità religiosa di laici che vivono in grande semplicità, che lavorano, pregano ed assieme frequentano la chiesa per l'Eucarestia e per le altre funzioni. Si sente necessaria la fondazione di qualche altra casa dipendente dalla principale in centri abitati vicini. Qualche anno più tardi, esattamente nel 1931, inizierà infatti la sua vita la casa di Siurgus Donigala, sul modello e con un simile itinerario di quella di Mandas. E' interessante la testimonianza di Serafino Piludu, l'attuale Direttore generale che entrò a far parte della compagnia, proprio quando era appena nata la comunità di Siurgus Donigala. "Abitavo a Siurgus Donigala dove sono nato; la mia famiglia era povera. Mentre andavo a scuola, aiutavo il parroco come sacrista ed a 13 anni diventai sacrista unico ed abitavo nella canonica. Ho conosciuto Padre Evaristo quando apri la succursale della casa di Mandas, al mio paese. In famiglia sentii parlare di lui. Mi colpiva la vita dei giovani della sua compagnia, semplici, cordiali, che lavoravano il loro orto nei pressi della casa, ancora in costruzione, e che spesso si riunivano in preghiera. Il primo incontro con loro lo feci in chiesa, che frequentavano tutti i giorni, spesso accompagnati dal Superiore. Un loro confratello muratore riparò e restaurò gratuitamente una cappella che era in rovina. Un altro, il rag. Musiu, aveva fatto un dipinto: l'immagine di S. Antonio e dipinse anche parte della volta. Cominciai a frequentarli anche nella loro residenza e nel campo dove lavoravano. La mia casa era vicina, per cui avevo frequenti occasioni di passare da loro. Mi trovavo con loro come in famiglia: facevano le preghiere mattina e sera; a mezzogiorno interrompevano tutti il lavoro e il Superiore intonava l'Angelus. Erano tutte cose che mi colpivano: la loro vita mi attirava. Quando conobbi personalmente il Superiore fu una grande emozione. Il Superiore Locale mi presentò e comunicò a P. Evaristo. "Questo ragazzo desidera far parte della nostra compagnia". Rispose: "Gli darò una risposta". Passarono almeno sei mesi prima dell'accettazione. Ma mi aveva dato subito buone speranze, dicendomi di prepararmi. Io continuavo a frequentarli, lavoravo e pregavo con loro. "Ora vado, perché mi aspettano per mangiare, a casa". "Mangia con noi". E spesso mi trattenevano anche ai pasti. Avevo 14 anni quando entrai nella Compagnia. 1l modo paterno, buono e gentile di P. Evaristo, quando veniva a trovarci, mi toccava sempre. Parlava con noi in dialetto, come tutti e se si fermava più di qualche giorno, lavorava con noi. Ammiravo il suo dinamismo. Non restava mai fermo, si adattava a tutti e a tutto: aveva una capacità prodigiosa in tutti i mestieri e li insegnava ai ragazzi. Aveva appreso benissimo il lavoro della muratura. A Mandas, nella costruzione dei locali aveva utilizzato qualche muratore esterno e da questi, lui con gli altri, aveva appreso tutte le tecniche necessarie per poter lavorare autonomamente. Lui progettava, disegnava, dipingeva le pareti e mentre lavorava, insegnava le tecniche del mestiere.".

Le persone che cercano di incontrare P. Evaristo, dal tempo della sua permanenza a Cagliari, in tutte le sedi in cui ha operato e vissuto fino a Donigala Fenughedu, sono le più diverse per età e condizione sociale, contadini, lavoratori, medici, studenti. Alcune per un semplice incontro altre per un rapporto di amicizia e di collaborazione, altre ancora per poi sentirsi chiamate a seguirlo definitivamente. Per tutti, in Evaristo, c'è stato un modo diverso di rapportarsi e tutti in lui hanno percepito qualcosa di non comune, una attrattiva particolare. Abbiamo parlato della testimonianza di Serafino Piludu, ascoltiamo ora quella di Mariano Atzeni e Giacinto Murru. Mariano Atzeni ci racconta: "Sono di Monserrato. Stavo in casa di mio zio, e sentivo parlare di questo P. Evaristo o semplicemente Evaristo, come di una persona già molto conosciuta. I fratelli di mia zia erano quasi tutti salesiani. Soprattutto uno dei cugini che lo aveva visto a Cagliari, mi parlava di lui. Tra l'altro raccontava qualcosa che per me aveva di prodigioso. Era riuscito ad avvicinare un gruppo di universitari, una trentina e si intratteneva con loro parlando di tutto ma particolarmente di problemi religiosi. Nella parrocchia di 5. Anna era parroco Mons. Piu, zio di Mons. Plinio Piu, ed al parroco aveva parlato di questi studenti. Un giorno li portò in chiesa chiedendogli di confessarli; fecero tutti la comunione pasquale. Mons. Piu rimase sbalordito, ma essendo suo Padre spirituale conosceva la bontà e le capacità di Evaristo. Gelosie e calunnie portarono Mons. Piovella, che pure era tanto buono, a scomunicarlo, proibendo che gli si desse l'Eucarestia. Mons. Piu soffri molto del fatto, ma continuava ad ammirare Evaristo per la sua pazienza e per la sua costanza alla Messa. Raccontano un fatto straordinario: un giorno, alla comunione della Messa, la particola dalle mani di Mons. Piu volò in bocca ad Evaristo. Questo ho sentito raccontare. Comunque Mons. Piu ottenne che Mons. Piovella revocasse la sua decisione di privare dei sacramenti P. Evaristo. Cominciai a sentire anch'io il bisogno di conoscerlo e di poter essere uno dei suoi. Andai a Cagliari e dissi a P. Evaristo che mi sentivo chiamato alla vita religiosa che facevano quelli che erano con lui. Mi disse di fare la domanda, e più tardi, quasi subito, mi accettò. Avevo 19 anni. Era il 1937. Per alcuni giorni stetti a Cagliari. Ricordo che per il suo onomastico, il 26 ottobre, con un confratello siamo andati dalle Paoline, che si trovavano in Piazza Martiri, vicino al Bastione, e comprammo il dono: le Massime Eterne. Quindi son venuto a Donigala, poi a San Gavino e di nuovo a Donigala. Mi sentivo come affascinato dalla figura di P. Evaristo, lo ascoltavo, incantato quando ci parlava. La giornata in comunità iniziava con le preghiere del mattino, dopo la colazione si lavorava tutta la mattina. A mezzogiorno, dovunque ci trovassimo, interrompevamo per l'Angelus. Una delle prime volte, ero dentro la cisterna che stavamo scavando, con un confratello. Lui iniziò l'Angelus in latino e io mi vergognai, perché non lo sapevo e quindi dicevo solo le Ave Marie. Per la Messa veniva spesso il parroco di Donigala; alla domenica andavamo alla parrocchia e anche se distante alcuni chilometri, facevamo volentieri la strada a piedi. Dopo la guerra, quando iniziò il collegio e la scuola, io feci da istitutore". Giacinto Murru di origine genovese, ci racconta con queste parole del suo incontro con Evaristo e della sua "vocazione": "Avevo sedici anni, avevo avuto una brutta caduta, una gamba rotta (zoppico ancora) ed ero ricoverato nell'Ospedale Marino di Cagliari. Lui veniva a trovare un amico ricoverato ed io lo vidi perla prima volta. Si fermava da quel suo amico e diceva qualche buona parola anche a me. Mi aveva colpito la sua bontà con gli ammalati e il suo carisma: buono e severo nello stesso tempo. Ricordo che andava molto spesso a trovare uno che era malato di tbc all'ultimo stadio. Un giorno disse a P. Evaristo che voleva suonare qualcosa per lui. Con le forze che gli restavano, malgrado le resistenze di Evaristo, prese il violino e suonò in suo onore. Mori, dicendosi felice, qualche minuto dopo. Un mio amico era entrato nella sua compagnia e mi diceva che venissi anch'io. Tardavo a guarire. I miei volevano che tornassi a Genova, dove ero nato, e continuassi gli studi. Andai da lui: gli dissi che non potevo lavorare come gli altri. Mi volle con se: ti prepareremo un ambiente dove potrai fare il sarto, disse. Sapendo che era l'unica cosa che potessi fare. Era il 1931. La gamba non mi guariva, la piaga sulla ferita era quasi purulenta. "Vedrai che guarirai". Mi portò a Mandas. Guarii. Restai con lui. E sono ancora Evaristiano. Ora ho 76 anni. Da quando sono guarito ho fatti tutti i lavori. Imparai a fare il falegname. Diceva che il lavoro era importante: "Il lavoro è anche preghiera". Ma non trascuravamo mai anche la preghiera con cui iniziavamo la giornata. La Messa alla domenica, ma spesso anche gli altri giorni. Lui ci parlava con semplicità. Ci raccontava come aveva iniziato la sua opera. Quando ci chiedeva qualcosa lo faceva sempre senza che sembrasse comandare o imporre."

LA CASA DI DONIGALA FENUGHEDU

Nel 1934 iniziò la fondazione di quella che sarebbe stata la Casa Madre, nelle campagne di Donigala Fenughedu (Oristano). La signora Anna Maria Denti, concesse una fetta di un oliveto a P. Evaristo, con l'impegno di dare la metà del raccolto, finché lei viveva. A questa fetta si aggiunse un'altra parte di terreno. C'era una piccola casetta per conservare gli attrezzi da lavoro. Impararono a fare i mattoni crudi e cominciarono a costruire mentre contemporaneamente si lavorava la terra. Nei pressi trovarono una cava di sabbia e iniziarono a fare da se i blocchetti di cemento. Uno di loro, falegname, aveva costruito la forma, per farli. Per i lavori guidati e fatti con gli altri dallo stesso P. Evaristo, si fecero venire, inizialmente i confratelli delle altre case. Una delle prime strutture di cui P. Evaristo si preoccupò, oltre agli alloggi essenziali, fu la chiesetta. Anche dai paesi del campidano cominciarono a venire altri giovani e meno giovani ad ingrossare le file del gruppo. Diversi anche senza che prima avessero una pratica religiosa. Cosa poteva esserci in questi che li portasse a venire? Chiedo ancora al Signor Serafino Piludu. - "In ciascuno ci potevano essere motivazioni interiori diverse. Comunque con noi si trovavano bene e gradualmente capivano le nostre motivazioni religiose e diversi di loro finirono per entrare ne/la Compagnia." Oggi la Casa, (come era stata ultimata da Evaristo e in seguito sempre curata e restaurata) è una struttura grandiosa al centro di un giardino ricco di verde, dietro la quale si estende la vasta azienda agricola. Per raggiungerla, uscendo dall'abitato di Donigala, in direzione di Cuglieri, si svolta sulla sinistra e si percorrono alcuni chilometri di una stradina bianca, tra siepi di fichi d'India, di canne e di rovi, fino ad un bivio. Sulla sinistra, dopo una curva, si arriva alla chiesetta di Santa Petronilla (dalla quale la zona prende il nome), che si trova su un lato di uno slargo, triangolare per le tre querce gigantesche e secolari, che fanno da vertici e coprono di verdi ombre tutto il sagrato, per cui la chiesetta scompare quasi in questo maestoso, affascinante ambiente campestre. Sulla destra del bivio, dopo circa un chilometro, tra le siepi di fichi d'India che diventano più fitte si arriva al grande cancello che si apre in un lungo viale fiancheggiato da un'alta siepe fiorita su una rete di metallo dalle larghe maglie inframmezzata da pilastri color paglierino con bordature di cornici rossicce. I pilastri sono sormontati da grandi vasi di foggia romantico-ottocentesca. Alla fine del viale, un vasto giardino con palmizi e due altissimi pioppi uniti da un alto intreccio di glicini. Quasi al centro una fontana circolare a strati di piatti rotondi degradanti verso l'alto che termina con due pesci di cemento dalle cui bocche zampilla l'acqua. Sul giardino l'ampia facciata della casa di color paglierino, con pilastri incorniciati con rettangoli rossicci, che dividono in grandi rettangoli, tutto l'edificio, dalla base ai piani superiori. Tra un pilastro e l'altro, balconate dello stesso colore, con balaustra in cemento traforato da disegni simbolici. Sulla destra della facciata, sempre dello stesso colore, un lungo muro inframmezzato di pilastri, come quelli del viale d'ingresso, curvilineo verso il basso, nella parte alta, tra un pilastro e l'altro. Ciascuno dei pilastri è sormontato da vasi come quelli già descritti. Si potrebbe parlare di una architettura romantica ottocentesca con elementi adattati di stili Liberty. Non manca all'angolo, nella parte terminale del muro, una breve piccola torre quadrangolare con i relativi merli di grandezza proporzionata alla torre stessa. Al centro della facciata, l'ingresso della chiesetta, a fianco, più modesto, l'ingresso della Casa. Mentre il nuovo impegno che assorbiva la Compagnia era la casa (destinata ad essere la principale), di Donigala Fenughedu, continuavano ad esistere anche se con pochi membri, quelle di Guamaggiore, Mandas ed anche quella di Cagliari che era formata di un gruppetto di confratelli che lavoravano nella Tipografia cattolica. Vivevano nella piccola canonica della chiesetta di San Rocco, una chiesetta abbandonata, rimessa un po in ordine dagli stessi evaristiani. Secondo le finalità statutarie che comprendeva anche quella di curare Asili per l'infanzia e case per bambini orfani e senza famiglia, aveva una vita ormai autonoma, anche se sempre parte dell'unica Compagnia, la congregazione femminile. Inizialmente assieme alla Confondatrice Beniamina Piredda, a Mandas, c'erano appena due signorine che curavano un orfanotrofio-asilo. In seguito, in una casa a parte, l'orfanotrofio si trasferì a Donigala Fenughedu. Serafino Piludu, ricorda la visita di Mons. Delrio, Arcivescovo di Oristano quando la casa nelle campagne di S. Petronilla, in Donigala, era agli inizi della sua strutturazione, ed era iniziata la costruzione della chiesetta. "Ci eravamo inginocchiati fuori all'aperto, per ricevere la sua benedizione e l'Arcivescovo ci disse queste parole: "Oggi vi benedico nella polvere, domani tornerò a benedirvi nella vostra chiesa".". Altra visita indimenticabile fu quella del missionario vincenziano Signor Manzella, che continuò a restare in corrispondenza con P. Evaristo.

L'INCONTRO DI DUE GRANDI ANIME

Fu una visita che diede tanta gioia e tanto coraggio agli Evaristiani. Signor Manzella fu tanto colpito dalla semplicità e dalla povertà di questi uomini e giovani che lavoravano e pregavano. Si fermò quasi un giorno intero. Mangiò con loro. Restò divertito del fatto che si cucinò in una latta di benzina e si mangiò all'aperto. Era l'anno 1935. Tra le altre capacità manuali di Evaristo c'era anche quella della sartoria: cuciva ma sapeva anche tagliare e confezionare vestiti. L'abito per se ed i confratelli, indossato nelle cerimonie, durante la Messa, la domenica ed in altre circostanze di particolare solennità, era stato ideato e confezionato da lui. Una veste nera simile alla talare, con una breve fascia legata ai fianchi ed un leggero manto. Confezionò anche il vestito nero delle consorelle curando una linea di sobria eleganza femminile. Al Missionario Signor Manzella, che aveva iniziato a costituire il gruppo di suore che oggi si chiamano Manzelline, trovò bello e secondo i suoi gusti il vestito delle consorelle di Evaristo. Lo pregò di confezionare qualcosa di simile per le sue suore e pregò Evaristo di venire con lui a Sassari per studiarlo e confezionarlo. E questo abito (forse non lo sanno neppure le Manzelline) indossato anche oggi si deve al disegno che ne fece Evaristo. Padre Evaristo trascorreva la maggior parte del suo tempo a Donigala, ma non trascurava di visitare le altre case che operavano nel resto della provincia di Cagliari. Incaricò presto, come superiore di Donigala Serafino Piludu, proprio perché lui doveva spostarsi spesso. "Il fondatore, col quale io restai sempre, -è ancora Serafino che parla- quando era con noi, continuava la sua opera formativa. Trovava lo spunto in ogni piccola cosa ed in ogni avvenimento, per parlarci di Dio, anche da una notizia del giornale. Semplice, fraterno, ma teneva conto di tutto. Sempre attento anche a riprenderci quando si trascurava qualcosa."

Lavorò molto anche nella nuova casa di Putzu Idu. La ne curò la costruzione personalmente, nell'ultimo periodo della sua vita. Serafino Piludu ricorda come i momenti più belli quelli vissuti assieme a Padre Evaristo quando si partiva sulle carrette, con l'essenziale, per andare a fondare una nuova casa. Nel 1935 si andò ad iniziare quella di San Gavino, in una campagna abbandonata, con i mattoni crudi fatti da loro misero su l'essenziale di una abitazione e le varie strutture edilizie necessarie. La residenza di San Gavino durò fino alla morte del fondatore, poi, non essendo più possibile tenerla venne abbandonata. "Si partiva felici come per una missione e Padre Evaristo con la sua presenza alimentava il nostro entusiasmo. Ci fu una breve parentesi ad Ozieri, dove una piccola comunità prese sede in un villino del seminario e dissodò il terreno annesso. Tre dei confratelli, tra i più giovani, intrapresero gli studi nel Seminario con l'intenzione di diventare Sacerdoti. Il fatto riempi di gioia e di speranze Evaristo. Uno dei tre arrivò al Sacerdozio ma non rientrò nella congregazione, come avrebbe voluto P. Evaristo. La congregazione femminile in quegli anni era presente a Baratili, Bauladu e Serramanna, lavorando in asili infantili e collaborando alla vita parrocchiale.

L'OPERA DI SERRAMANNA

A Serramanna P. Evaristo compiva l'opera più coraggiosa e grandiosa, giudicata temeraria da tanti, ma che diede modo di capire anche il suo spirito organizzativo e la sua grande fede. Gli fu concesso un vasto appezzamento di terreno di circa settanta ettari, paludoso ed in certe stagioni quasi del tutto coperto dalle acque. Era il 1938 ed Evaristo, seguito fedelmente dai suoi confratelli, iniziò un'opera di bonifica, per quei tempi e per i mezzi disponibili, a dir poco grandiosa. "Pazzesca "la giudicavano gli abitanti del paese. Iniziarono con picconi e badili e proseguirono con mezzi più adatti. Bonificata, la zona fu resa coltivabile e presto cominciò a dare i suoi primi frutti. Grano ed altri cereali, nella vasta campagna, al centro della quale avevano costruito una prima povera casa. Nel 1946 al centro del tancato una grande casa accoglieva una comunità tra le più importanti dell'opera evaristiana. Un centro della sua spiritualità circondato da un'azienda agricola modello. Era ancora cosi fino a pochi anni fa. Non potendo avere un Sacerdote all'interno della Congregazione, neppure a Donigala Fenughedu, diventata la sede principale, appena la chiesetta fu ultimata, Mons. Del Rio, nel 1936 concesse di poter tenere in continuità l'Eucarestia. Per Evaristo fu il conforto più grande. Sempre riservato e modesto non ha mai voluto forme propagandistiche o pubblicitarie del suo operare. Una volta sola, in obbedienza a Mons. Del Rio Arcivescovo di Oristano, scrisse alcuni appunti sulla sua vita per essere inoltrati alla Sacra Congregazione dei Religiosi, con la pratica per- il riconoscimento della Sua Congregazione. Pratica inoltrata volentieri dallo stesso Arcivescovo. Non si ebbe un celere risultato, perché presto iniziò la terribile parentesi della guerra e la scomparsa di S. E. Mons. Del Rio.

IL DOPO-GUERRA

Nel Dopo-Guerra con la crisi economica ed umana che ne segui, nell'acuirsi in modo enorme dei problemi assistenziali, la presenza dell'opera di P. Evaristo e della sua Congregazione si rivelò oltre modo preziosa. La Prefettura e più tardi l'Amministrazione Provinciale affidarono alle cure degli Evaristiani un numero considerevole di orfani o di figli di famiglie irregolari e giovani sbandati ed abbandonati. Accoglievamo tutti con molta benevolenza e cordialità e P. Evaristo aveva un riguardo tutto affettuoso per i più poveri e disgraziati di loro. Sorvegliava attentamente che anche gli altri confratelli e le sorelle, nelle varie case, creassero per questo mondo di ragazzi e ragazze, un ambiente accogliente che sostituisse la famiglia e l'affetto che ad essi mancava. Ingrandì i locali di Donigala Fenughedu e cercò di accelerare i lavori per la casa della colonia marina di Putzu Idu (S. Vero Milis), utilizzata poi durante l'intero anno. In quest'ultima si giunse ad ospitare 150 assistiti ed in quella di Donigala anche 200 e passa. Nelle due case si stabilirono presto sezioni di Scuole elementari statali, ed in quella di Donigala anche una sezione di Scuole medie dal 1959 in poi. I ragazzi ormai fuori dall'obbligo scolastico, venivano incoraggiati a forme di apprendistato nei vari mestieri, dall'agricolo a quello della muratura e della falegnameria.

L'EDUCATORE

Firmino Piludu, nella sua tesi di laurea in Pedagogia, presentata all'Università di Cagliari nel 1978, indica le qualità e gli aspetti del metodo educativo di P. Evaristo e degli Evaristiani. Le qualità morali ed intellettuali, nonché la versatilità ed il fascino personale di Evaristo Madeddu sono alla base di questo sistema educativo. Esso si muove "nella visione di un 'azione educativa permanente, all'interno di una comunità" che per quanto grande essa sia, ha un ambiente di famiglia. L'educatore nel donarsi e nel presentarsi come un modello di vita umana e cristiana, deve dimostrare "profonda convinzione che in tutti, ma soprattutto nei giovani, siano latenti notevoli possibilità di progresso educativo ". (1) Naturalmente Evaristo non aveva una sua sistematica teoria pedagogica, ma era un educatore, per cui possiamo parlare espressamente di lui e della sua azione educativa che diventava scuola per i suoi collaboratori. "C'è in lui fermezza, coraggio di condurre una vita semplice e modesta" ed è aperto alle istanze di un discorso sociale. È stato un vero educatore che ha saputo prima formare se stesso e quindi è stato in grado di conferire alle sue parole forza di convinzione, in chi lo circondava e viveva con lui. Suoi strumenti didattici quanto mai efficaci sono i brevi discorsi e le lettere. A questi possiamo unire anche le forme visive delle sue pitture, affreschi murari, sculture e del suo stile architettonico di cui ha riempito abbondantemente tutti gli ambienti delle sue case. Uno stile tra il Naif e la semplicità e chiarezza illustrativa che permettesse a tutti e nei vari momenti di vita, compresi quelli ricreativi e dei pasti, di ricevere messaggi, idee ed istruzione. Il suo modo comprensivo di esprimersi lo rende accetto alla comunità che lo ammira e lo segue. Parlava spesso e volentieri in dialetto e nel linguaggio dei più semplici. Alcuni discorsi sono stati stenografati da alcuni confratelli. Alla base di tutto il suo insegnamento e della sua pedagogia c'è la fede religiosa e l'essenza del Vangelo. "Bisogna amarlo questo Dio - diceva - amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente... amarlo in modo totale - tota mente, toto corde et omnibus viribus - in modo che nel cuore e nella mente non rimanga posto per altri affanni, altre cure, altre passioni, altri ideali che non siano sentiti e pensati se non per Cristo ed in nome di Cristo... Quale altro sentimento può far nascere nella mente e nel cuore la grazia santificante se non l'amore e più che l'amore? E l'amore che addolcisce la vita e rende grato il dolore; è l'amore che insegna la fedeltà ad un 'anima e l'allontana dal male; è l'amore che umilia ed esalta, supplica e dona, ammansisce e fortificata, assenna e incoraggia, suggerendo il bene, volgendo al bene ogni principio di vita, ammaestrando al bene quanti ci circondano, suscitando il bene e la presenza del Bene Eterno sulla terra"(da un discorso stenografato). Le lettere vengono scritte per intrecciare, a distanza, un dialogo più personale con l'amico in difficoltà. Si potrebbe parlare anche di "metodo socratico "in quanto egli tendeva "ad aiutare l'interlocutore a convincersi delle bontà di una determinata azione, la validità di un determinato genere di vita, il fascino di una determinata verità". Fa in modo di rendere i suoi amici attenti ai pericoli dell'orgoglio fatto di ambizione, dell'amor proprio nemico dell'umiltà e remora all'obbedienza, dell'avvilimento e della superficialità nemici della propria crescita educativa. In uno sforzo comune si dovrà realizzare lo spirito di unione fraterna e di familiarità che sono il cardine della Comunità. La felicità deve passare attraverso la libertà, concepita come capacità di scelte, attraverso lo sviluppo delle proprie facoltà mentali. La legge va osservata in opposizione all'arbitrio e al capriccio momentaneo. Razionalità contro istinto, processo lento e costante contro slancio impetuoso e non costruttivo, crescita naturale contro sviluppo manierato e vanitoso, impegno quotidiano contro ambizioni velleitarie.

Gli obiettivi primari proposti alla "società laicale del S. Cuore" sono i seguenti: a) interpretazione di una propria spiritualità da raggiungere attraverso il lavoro manuale che deve trasformarsi in preghiera; b) impegno sociale che si realizza in varie forme, ma soprattutto nell'assistenza ai ragazzi più bisognosi. E necessario avere i piedi per terra. La maturazione personale e della Comunità non è periodica ma continua. E` chiaro il concetto della "educazione permanente".

Inoltre è sottolineato di continuo il concetto di "autoeducazione". La disponibilità di ciascuno e di tutti si dimostra oltre che nelle tecniche del lavoro anche nell'essere disposti a rendersi utili in qualsiasi attività sia richiesta alla comunità ed all'esterno di essa. Ogni forma di immobilismo e disimpegno deve essere bandita. Lavoro, preghiera ed autonomia di sussistenza economica con l'impegno di tutti.

(1) Le varie citazioni sono del dattiloscritto della tesi di F. Piludu: "La società laicale Evaristiani del S. Cuore. - Aspetti formativi ed educativi." A.A. 1971 - 78 CA.

AGRICOLTURA E NATURA

Si è detto del lavoro manuale che era considerato da Evaristo un aspetto educativo e formativo, per tutti, compresi gli studenti. Una preferenza era data al lavoro agricolo ed al contatto con la natura. E questo il motivo principale che gli ha fatto scegliere per le case della sua opera, località agricole lontane dai centri abitati e luoghi di particolare bellezza naturale come "Sa Rocca tunda" nel litorale di Putzu Idu (S. Vero Milis) o Villasimius (Ca).

Anche se lui non ci pensava, come riferimento culturale, a noi è facile il richiamo alle teorie pedagogiche di 6. G. Rouseau. Il mondo naturale come ambiente ideale di educazione e prima fonte di conoscenza: gli alberi, gli animali, i fiori, le erbe. L'insegnamento delle cose. Natura, non solo da contemplare, ma fonte di scienza ed assieme di formazione attraverso il lavoro che mentre la trasforma e la sfrutta senza farle violenza ed abbellendola, ci permette di partecipare all'opera creativa di Dio, ce Lo manifesta e facilita il nostro dialogo con Lui.

La preghiera e la meditazione sono aiutate e diventano ossigeno dello spirito, nel silenzio e nell'armonia delle stagioni e nelle voci degli animali, del vento e delle acque.

IL SOGNO INUTILMENTE COLTIVATO

Uno dei sogni che Padre Evaristo non vedrà mai realizzato è stato di poter avere all'interno della Società un membro sacerdote. Dopo quanto era successo ad Ozieri, P. Evaristo aiutò, sobbarcandosi a tutte le spese, un chierico, sia negli studi liceali che in quelli teologici. Si trattava di Pirisi che ordinato Sacerdote avrebbe dovuto continuare ad operare all'interno della Comunità evaristiana. L'Arcivescovo Mons. Cogoni che lo aveva ordinato decise che lo avrebbe fatto operare inizialmente nelle parrocchie, per poi lasciarlo agli evaristiani.

Ciò non avvenne mai e P. Evaristo si vide in qualche modo tradito e beffato. Don Giuseppe Pirisi venne ordinato nel 1946, quando "La Società" degli Evaristiani era nella pienezza del suo sviluppo, sia nel settore maschile che in quello femminile. La presenza di un Sacerdote sarebbe stata di grande sostegno spirituale e morale a P. Evaristo a Madre Beniamina Piredda, ai loro confratelli e consorelle. Don Pirisi fu parroco in varie parrocchie e non ci consta che abbia mai fatto qualcosa per ricordare ai propri superiori (Mons. Cogoni, Mons. Fraghi, e dopo la morte del Fondatore agli altri) l'impegno assunto, né personalmente si curò mai della Società. Fu presente ai funerali del suo benefattore.

Malgrado l'amarezza ed il grande dispiacere di P. Evaristo, non sapremo dire se fu una grande perdita per la Comunità, che conservò inalterata la sua caratteristica di "Società laicale". Tanti ottimi Sacerdoti si curarono periodicamente di portare nella cappella il dono della celebrazione eucaristica, della Parola e dei Sacramenti. Per quanto riguarda la casa madre, ricordiamo Don Sias, Don Giovanni Melis, (l'attuale Vescovo di Nuoro) durante il suo primo annodi Sacerdozio, quindi tutti gli altri parroci o curatori temporanei della parrocchia di Donigala. Don Antonio Sanna ed attualmente, quotidianamente, Mons. Clemente Caria che è di grande sostegno sacerdotale ed anche pratico della Società.

L'ULTIMA STAGIONE

Col passare dei giorni Evaristo cura sempre meglio le case fondate e la sua opera è sempre più paterna, incoraggiante, la sua parola e la sua azione sempre più rimarcatamente soprannaturale, senza mai perdere il crisma della semplicità e dell'umiltà. I ragazzi e gli ammalati sono quelli che avvicina di più ed ai quali dà tutto il suo affetto e il suo aiuto.

Madre Beniamina Piredda finché la salute le poteva permettere di viaggiare, non mancava di far visita alle consorelle delle varie case ed asili. Ma gli anni e la salute che peggiorava giorno per giorno la costrinsero a restare nella Casa di Donigala e presto dovette stare a letto. Tutta la responsabilità anche del settore femminile passò nelle mani di Evaristo che informava di ogni particolare e di qualsiasi vicenda della Società, Beniamina. Assistita amorevolmente da qualche consorella (fatta venire apposta), dal marito e circondata dall'affetto di tutti, dopo un anno di quasi totale immobilità a letto, dopo aver ricevuto i sacramenti moriva l'11 settembre del 1956 all'età di 87 anni. Venne sepolta nel cimitero di Donigala. Per P. Evaristo fu un grande dolore ed una separazione che lasciò un segno incolmabile nel suo animo.

Del settore femminile continuò ad interessarsi direttamente Evaristo anche se nelle case particolarmente affidate alle consorelle, c'era una superiora responsabile. Tuttavia l'attività femminile più che mai venne considerata una specie di succursale dell'unica opera evaristiana.

LE ULTIME FATICHE

Negli ultimi dieci anni della sua vita P. Evaristo cominciò a sentire gli effetti ed il peso della sua salute malandata. Il diabete non gli permetteva tutto quel nutrimento che gli sarebbe stato necessario per il grande dispendio di energie che gli impegni gravosi, che in quegli anni stava portando avanti, avrebbero richiesto. L'orfanotrofio ed assieme colonia marina di Putzu Idu, dove vivevano 100 - 150 ragazzi, era ancora in completamento nelle strutture che lui curava personalmente, lavorando e dirigendo il lavoro dei confratelli muratori.

Esegui numerosi affreschi murari che illustravano fatti biblici ed in particolare della vita di Gesù con gli apostoli: affreschi che anche oggi si possono vedere visitando i locali di quella vasta costruzione. Non trascurava di curare gli spazi riservati al giardino. Rientrava periodicamente alla casa di Donigala, con i segni evidenti della stanchezza e della malattia. La sua figura fisica si era ingrossata perdendo quell'aspetto secco che aveva un tempo.

Oltre alla casa di Putzu Idu, dal 1957, si era dato da fare anche per sistemare la casa ed il terreno di Villasimius dove presto avrebbe operato un altro orfanotrofio ed assieme una colonia marina, anche per i ragazzi delle altre case. Con un gruppo di confratelli, in vari tempi ampliò i locali primitivi e rese presto funzionale anche quei nuovi ambienti.

Dopo la morte della moglie Beniamina Piredda, quasi per un bisogno di renderle un omaggio alla memoria, P. Evaristo sollecitò Maria Grazia Soru, Superiora della Casa Asilo di Donigala di presentare all'Arcivescovo Mons. Sebastiano Fraghì, che stimava gli Evaristiani ed era ben disposto nei loro confronti, una relazione delle attività svolte, accompagnandola da relativa domanda per un riconoscimento ufficiale per il settore femminile della Compagnia. In data 24 settembre 1958, veniva recapitato alla Casa di Donigala il documento cosi definito: "Visti i Cann. 685, 686 del C.J. C.; il Regolamento già in atto presso la Compagnia delle Figlie del S. Cuore, fondata dalla Signora BENIA MINA PIREDDA; la relazione delle attività svolte, presentata dalla attuale Superiora Maria Grazia Soru; CANONICAMENTE ERIGIAMO in Pia Associazione la COMPA GNIA DELLE FIGLIE DEL S. CUORE, con sede in Donigala Fenughedu. Firmato: Sebastiano Fraghì Arcivescovo.

Nelle sue conversazioni con i suoi collaboratori, P. Evaristo aveva parlato più volte della sua morte. Più volte aveva detto che non sarebbe morto "in Comunità". Giacinto Murru ricorda una sua frase, detta in sardo, con la quale prediceva, quasi esattamente, la data della sua morte: "Morirò un anno dopo che la nostra Società sarà approvata ufficialmente dalla Autorità ecclesiastica".

L'approvazione tanto desiderata arriverà esattamente un anno e tre giorni prima del giorno della sua morte. Fu un momento di grande gioia e di grande emozione quando lesse ai confratelli radunati attorno a se il documento che reggeva con le mani tremanti:

NOS SEBA STIA NUS FRA GHI ARCHIEPISCOPUS ARBORENSIS Vista la domanda del Sign.r Evaristo Madeddu tendente ad ottenere l'approvazione ecclesiastica della "Compagnia Evaristiani del S. Cuore" con sede in Donigala Fenughedu (Oristano); Visto il regolamento di vita in atto nella detta Compagnia; a norma del can. 673 e segg. C.J.C., in virtù della nostra AUTORITÀ ORDINARIA ERIGIAMO CANONICAMENTE la "Compagnia Evaristiani del S. Cuore, composta dai membri elencati nel foglio annesso e che fa parte del presente decreto, con sede in Donigala Fenughedu (Oristano) in "SOCIETÀ LAICALE DI UOMINI VIVENTI IN COMUNE SINE VOTIS", dato ad Oristano il 3 Aprile 1965 Sebastiano Fraghi Arcivescovo di Oristano

Nella chiesetta della loro casa si riunirono in preghiera per ringraziare il Signore, i confratelli e le consorelle residenti in Donigala con la presenza anche di quelli delle altre case. La gioia del giorno aveva per Evaristo un'ombra: l'assenza di Beniamina Piredda che con lui aveva desiderato tutta una vita quel momento.

Gran parte del tempo negli ultimi mesi li trascorreva a Putzu Idu completando i lavori e rifinendo l'organizzazione di quella casa a cui si era dedicato con passione affettuosa. Serafino Piludu racconta: "Un giorno venne qui a Donigala. Stava male. Passò con noi alcuni giorni. Quindi andò a Cagliari a farsi visitare. Soffriva anche al cuore. A Cagliari, passò circa un mese di cure che furono inutili. Stava in casa d'amici. Non andò in ospedale. I medici venivano a casa a visitarlo e a curarlo. Andavamo spesso a fargli visita. I medici ci pregavano di non stancarlo. Ci diceva: Sto per lasciarvi. Ma noi non davamo peso, almeno il peso dovuto alla sua malattia. Ci sembrava impossibile che non dovesse tornare tra noi. Quando è morto, io non c'ero".

In quel mese di malattia era stato ospitato in casa del Dottor Giuseppe Boi, in via Giudice Costantino. L'amicizia di questo medico, che abita ancora nella stessa abitazione, è legata alla grande amicizia che Evaristo aveva per il Dottor Vincenzo Schivo, dentista ad Oristano, del quale il Dr. Boi sposò la figlia, Lalla Schivo. L'amicizia per il Dr. Schivo risaliva ai tempi in cui Vincenzo Schivo era studente all'Università, ed assieme ad altri compagni era stato avvicinato da Evaristo e da questi convinto alla pratica religiosa. Il Dottor Schivo parlava di una "conversione alla fede". Si tratta dell'episodio, di cui ci ha parlato Mariano Atzeni e che risale aI 1923.

Dopo aver ricevuto tutti i Sacramenti, moriva alle ore 9,53 del 6 aprile 1966, il Mercoledì Santo. Tutti quei confratelli e consorelle che poterono mettersi in viaggio, dalle varie case, raggiunsero Cagliari. La maggior parte tuttavia attese a Donigala Fenughedu, dove il giorno dopo sarebbe giunta la salma per i funerali. Il 7 aprile, dopo una breve sosta ed una preghiera del parroco, nella chiesa di San Carlo, nella cui parrocchia era l'abitazione del Dottor Boi, la bara partì per Donigala (Oristano) e giunse alle 15 nella Casa Madre della Compagnia, già strapiena di membri della congregazione e di tanti amici, conoscenti, suoi ammiratori, di Oristano e dei centri abitati dove aveva operato, Cagliari, Mandas, Selargius, San Gavino, Serramanna, Villasimius e da molti paesi della diocesi di Oristano. La salma venne esposta nella cappella e fu meta di visita e di preghiera di una interminabile fila di persone, fino all'ora del rito funebre celebrato alle ore 16.30. I funerali furono seguiti dai confratelli (circa 50) dalle consorelle (30 circa), da un nugolo di bambini e bambine e ragazzi delle varie case e da una grande folla. Fu portata nella chiesa della parrocchia di Donigala e quindi nel piccolo cimitero. Non si poté celebrare la Messa perché era il giorno del Giovedì Santo. Per lo stesso motivo era assente l'Arcivescovo Fraghi, impiegato nel Duomo. Mandò comunque un suo rappresentante.

La salma sostò tre giorni nella camera mortuaria del cimitero, in attesa che si preparasse la tomba. Ininterrottamente, giorno e notte, a turno, i suoi compagni la vegliarono fino al sabato sera, quando la bara fu collocata nella tomba. Rientrarono a casa per la Domenica di Pasqua. La prima Pasqua senza il Padre. Evaristo venne seppellito vicino alla sepoltura di Beniamina Piredda. Per i due si costruì, in seguito, un'unica tomba. Il giorno del trigesimo, S. E. Mons. Fraghi volle essere presente e celebrò la Messa in suffragio.

Dopo venti anni, nel 1986, la Compagnia ha ottenuto dalle autorità competenti, l'autorizzazione a disseppellire le due salme ed inumarle nella chiesetta della Casa di Donigala.

Il decreto per il riconoscimento della personalità giuridica della Compagnia, venne firmata dal Presidente della Repubblica in data 23 aprile 1966 ed entrò in vigore con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale il 15 giugno dello stesso anno. Con la tempestività che lo contraddistingueva, P. Evaristo aveva inoltrato da molti mesi la domanda e la documentazione necessaria. Ma la lentezza della nostra burocrazia che tutti conosciamo, non gli concesse di sapere prima della morte che la sua richiesta era stata accettata.

L'opera di P. Evaristo, dopo la morte del Suo Fondatore ha continuato a svolgersi nelle varie attività delle case affidate ai Confratelli ed alle Consorelle. Nella loro semplicità, spirito di fede, laboriosità e umiltà,i suoi seguaci hanno dimostrato e dimostrano fedeltà agli insegnamenti e, soprattutto agli esempi di quest'uomo che per cinquanta anni, dei suoi 76, di vita, ha lottato, pregato, faticato ed educato, formato uomini e donne, fino alla sua morte.

Nelle celebrazioni centenarie della nascita del loro Fondatore, gli Evaristiani mi hanno chiesto di scrivere queste note biografiche. L'ho fatto volentieri perché stimo queste persone e ammiro lo spirito che anima la loro Comunità. Sono convinto - e ne chiedo scuse - di non aver compiuto l'impegno assunto in modo completo e come certamente merita questa figura di uomo e di cristiano che ha onorato la Chiesa Sarda, nella quale, con la sua "Compagnia del S. Cuore", continua ad essere una presenza preziosa.


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Tel: +3978333071
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Aggiornato il: 22 giugno 2005