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Autobiografia

 

 

Anno 1935


CENNO DI BIOGRAFIA

PRESENTATA A SUA ECCELLENZA REVERENDISSIMA

MONS. GIORGIO MARIA DELRIO 

ARCIVESCOVO DI ORISTANO

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 L'anno del Signore 1935, addì 20 Febbraio, in ossequio e in virtù della santa ubbidienza impostami, per quanto fosse mia intenzione di non scrivere mai della mia vita e di affidare unicamente il mio passato alla testimonianza del Signore, scrivo un memoriale della mia vita.
Nacqui a Villaputzu per grazia di Dio il 25 Novembre 1890 da genitori cristiani Madeddu Vincenzo e Corona Angelina, ora defunti, che mi imposero il nome di Evaristo.
Non ho memoria della mia primissima infanzia uno dei ricordi più lontani è legato a questo fatto
V'era in paese una famiglia ridotta alla miseria, in essa la madre era paralitica da 15 anni. La compassione che pro vai fu tale che m'indusse a sottrarre clandestinamente dei soldi, del pane ed altro dalla casa paterna per venire incontro alla necessità di quei bisognosi.
A sette anni feci la prima Comunione e non posso descrivere il pianto versato in quel giorno, il più bello della mia vita. Nelle preghiere che rivolsi al Signore prima e dopo averlo ricevuto nel mio tenero petto, due cose gl'implorai sopra tutto darmi aiuto per raggiungere il Sacerdozio e la possibilità di dedicarmi ai poverelli.
Esternai a mia madre il segreto desiderio di consacrarmi al servizio di Dio, ed essa accolse questa mia confessione con un sorriso, poiché il proponimento corrispondeva al suo desiderio e mi rispose " Fa da buono, prega Gesù, studia e al resto provvederà il Signore". Ma il Signore aveva disposto diversamente. Volle provarmi col dolore e con l'avversità sin dalla fanciullezza. Avevo appena finito di frequentare la terza elementare che mia madre si ammalò di una forma di paralisi che doveva tenerla inchiodata sul letto per ben dieci anni.
Essendo morta l'unica mia sorella, la situazione in famiglia risultò tragica in casa eravamo tutti uomini (due fratelli più grandi di me ed uno più piccolo) e nessuna donna volle venire come domestica per paura del le critiche del la gente.
Io, sebbene ancora in tenera età, compresi la situazione, e mentre da un lato dovevo provvedere a tutte le faccende del la casa, dall'altro avevo premura di assistere a mia madre con l'assiduità necessaria, dovendole dare persino il cibo boccone a boccone, vestirla, voltarla sul letto.
Pur in mezzo a tante cure trovai il tempo di finire, studiando privatamente, le scuole elementari e conseguirne la licenza.
Il desiderio di consacrarmi al Signore non mi abbandonava intanto fui ascritto alla " Società di S. Luigi Conzaga" e ne indossai l'abito (sottana e cotta) sia nel servire la messa come nelle processioni.
Passavo la fanciullezza fra casa e chiesa. La mia frequenza ai Sacramenti e alle sacre funzioni dava un po ai nervi ai miei fratelli che mi deridevano perché, dicevano essi, vivevo, tra le sottane dei preti, e mi rinfacciavano che passavo il tempo senza apprendere un mestiere.
Contrariato anche dalle imposizioni di mio fratello Erminio che pretendeva che andassi con lui ai balli e ad altri trattenimenti di carattere mondano, vedendo delusa ogni mia speranza e volendo riafferrare con un atto di estrema risoluzione l'antico sogno che vedevo ogni giorno vieppiù dileguarsi, scappai di casa (avevo allora dodici anni) col proposito di recarmi a Cagliari e bussare alla porta di qualche convento con la speranza di esservi accolto. Quando era già notte iniziai il viaggio feci sessanta chilometri di strada, a piedi, provai molta paura e dopo diverse peripezie fui ricondotto a casa, senza neanche giungere a Cagliari. Deluso nelle mie speranze, ritornai alle fatiche e alle ansie di prima.
Mio padre mi tenne per qualche tempo nella sua officina di fabbro, ma poi dovette rinunciarvi perché la gracilità del mio fisico non permise che continuassi un lavoro sì pesante.
Chiesi a mio padre licenza di andare almeno come frate laico, ma egli si oppose con un reciso rifiuto e decise invece di fare di me un calzolaio. Mi mise come apprendista in una bottega del paese. Lì mio principale era un uomo dedito al vino, e un giorno, dopo una settimana che ero con lui, essendo egli ubriaco fradicio e avendolo io rimproverato per le bestemmie che diceva, quasi mi accoppò, lanciandomi una pesante scarpa da contadino sulla testa. In seguito a ciò, anche perché risentiti per quella violenza, dai miei non si parlò più di quel mestiere, dato anche che la mia presenza si era resa indispensabile, specie per l'assistenza di cui necessitava mia madre.
In quel tempo, poiché mi si permetteva di recarmi in Chiesa solo la domenica, per supplire all'assenza forzata degli altri sei giorni della settimana, mi rifugiavo a far le mie preghiere nel granaio della casa, e nella mia mente di fanciullo, quasi a rifarmi di tante delusioni patite, volli essere Sacerdote. Improvvisai un altarino con tavole, feci dei paramenti di carta e nel segreto di quel solaio, nel cuor della notte, alle ore 24, solevo celebrare con tutta la devozione la Santa Messa, o meglio ciò che io chiamavo con questo nome.
Dalla gioventù spensierata del paese, per la mia frequenza ai Sacramenti, ero censurato e diventato oggetto di poca considerazione.
A sedici anni si accordò maggior libertà di disporre del mio avvenire e pensai di poter raggiungere il mio antico ideale, senza abbandonare la mia povera madre. Con lo scopo di guadagnare il necessario per poter continuare gli studi, misi su una botteguccia, una rivendita di vino, pane, uova e poco altro.
Ma il Signore non volle che io continuassi in quel mestiere, e per la mala fede di una persona che causò una specie di fallimento, l'esercizio fu chiuso.
Avevo allora raggiunto, studiando in privato, la seconda ginnasiale. Sopraggiunta in quel tempo l'età del servizio militare, si riaccese la mia speranza. Dichiarato rivedibile, bussai alla porta di " S. Francesco di Paola " ma non fui ricevuto con la motivazione che mi mancavano i documenti.
Anche l'anno seguente furono frustate le mie speranze, ma il terzo anno ero risoluto di riuscire. Subita la visita militare l'ultimo di Maggio 1911 e ricevuta la riforma, decisi di stare a Cagliari finché il Signore non mi avesse aperto una porta. Finiti i soldi, chiesi e ottenni di stare nell'alberguccio in cui alloggiavo gratuitamente, come aiuto nell'esercizio, la cui padrona, essendo donna credente, mi accordò il tempo necessario per fare ogni giorno la santa Comunione.
Fu in tale circostanza che io ebbi occasione di conoscere chi sarebbe stata la mia consorte Piredda Beniamina, del fu Tommaso e della fu Ghiani Teresa, nata a Mandas. Era una donna già anziana, modestamente vestita di nero, che nascondeva il suo volto pallido sotto la sciarpa. Il suo stato malaticcio, essendo sola, senza parenti, le impediva di prepararsi il desinare ed era costretta dalla necessità a recarsi ogni giorno a quella trattoria, presso la sua conoscente. Ogni giorno si metteva silenziosa in un angolo, quasi vergognosa di essere là. La vista di quella donna, visibilmente sofferente, mesta e addolorata, che, appena mangiato si faceva il segno della croce e se ne andava via, aveva attirato la mia attenzione.
Un giorno ella mi raccontò i suoi dolori: era sola al mondo, figlia unica, aveva perduto i genitori ( insegnanti elementari ambedue ) ed era inferma sin dalla nascita, specialmente agli occhi; aveva bussato al la porta delle "Suore Cappuccine" ma non era stata accettata per causa della sua malattia. Mi disse di possedere qualche cosa e che era suo desiderio di aiutare i bisognosi, non con la solita elemosina di una moneta, ma formando qualche ricovero, qualche asilo. Mi disse: "Se avessi avuto un fratello come lei, quanto bene non si sarebbe potuto fare insieme a gloria di Dio".
Quanto entrava nell'ordine delle mie idee il suo parlare! Che forse il Signore l'avrà mandata in mio soccorso? Pensai. Le parlai anch'io delle mie aspirazioni deluse e i nostri ani mi a poco a poco s' intesero: dovevamo insieme operare il bene, ma capimmo che avremmo dovuto fare i conti con le male lingue del mondo, e per sottrarci ad esse, decidemmo di contrarre matrimonio. Le nostre relazioni non dovevano però varcare i limiti di quelle che corrono tra fratello e sorella. Questa determinazione e intesa reciproca fu suggellata dal vincolo di un formale giuramento in cui il Signore riceveva da ciascuno di noi due la consacrazione della verginità.
Di tale giuramento resi edotto l'Ordinario diocesano di Cagliari S.E. Mon. Ernesto Maria Piovella, come pure il mio confessore Dott.Canonico Mario Piu, Presidente della Collegiata di S. Anna.
Fu celebrato quindi il matrimonio il 26 Agosto 1911, in mezzo alla critica mordace del mondo che si scandalizzava della disparità dell'età degli sposi. La via era aperta per la realizzazione dei nostri propositi.
Si dovette subito urtare contro mille difficoltà il patrimonio del la mia compagna, sebbene discreto, era impari allo scopo, per formare un ricovero di mendicità e un orfanotrofio sarebbero occorsi dei milioni.
Che dire poi dell'ansia sempre crescente di farmi Sacerdote anche dopo sposato? Le difficoltà formarono in quel tempo attorno a me una barriera irta di ostili fantasmi, e nel le ore di smarrimento i pettegolezzi della gente si ripercuotevano nel mio povero cuore con l'ironico sogghigno della delusione. Riacquistai un po di coraggio e pensai di poter ricavare discreti mezzi dall'attuazione di questo progetto riprendere in possesso, che era affittata ad altri, la casa di proprietà della mia compagna (Corso Vittorio Emanuele n.67 e Viale Fra Ignazio da Laconi n.6) per affittarne le camere. Così fu fatto, e non badammo né a critiche, né a umiliazioni.
Il Signore benedisse i nostri sforzi e molto ci consenti di guadagnare. In quel tempo mi prodigai anche, gratuitamente, a pro dei ricoverati dell' Istituto dei ciechi di Cagliari, ma il mio cuore non era soddisfatto, fisso com'era alla vocazione sacerdotale. Per raggiungere lo scopo mi raccomandai all'interessato di S.E. Ernesto Maria Piovella, Arcivescovo di Cagliari. Avrei voluto seguirne il consiglio entrare nella " Piccola Casa del Cottolengo" per farmi Sacerdote, e in pari tempo la mia compagna, che vi sarebbe andata come suora contemplativa, ma l'infermità, specie agli occhi di costei, non lo permise.
Dopo tre anni chiesi invano di essere ricevuto dai Mercedari di Cagliari, e uno di quei Padri, il Padre Russo, s'interessò di chiedere la mia ammissione al collegio di Orvieto, ma nonostante la mia età di soli 24 anni, la domanda fu respinta.
L'anno seguente mi rivolsi di nuovo a S.E. Mons. Piovella il quale mi preparò una lettera per i " Fate bene Fratelli" ma dovetti rinunciare a spedirla stante l'opposizione della mia compagna che diceva " O tutti e due a posto o nessuno ".
Allora tutte le speranze mi parvero svanite il Signore non mi voleva dunque nel Sacerdozio, non ero degno, pensai. Giocai tuttavia l'ultima carta bussai al convento dei " Minori Conventuali " e il Superiore, Romolo Carta, mi promise una risposta che non ebbi mai.
In quel tempo si scatenò contro di me una guerra accanita, crudele, di male lingue calunnie, diffamazioni di ogni specie; fu come se una bufera infernale si fosse avventata contro di me per farmi perire.
Certo è che se non avessi avuto la fede di Cristo, la disperazione mi avrebbe travolto al suicidio. Quanta desolazione. Il Signore mi aveva chiuso le porte prima di sposarmi e anche dopo. Il mio animo era amareggiato dal malvolere del mondo, affranto dalle delusioni patite e cercavo nella preghiera quotidiana il conforto e la forza, nella ferma speranza che il Signore non poteva avermi abbandonato.
Una notte, verso le ventiquattro, mi trovavo genuflesso nel silenzio della mia cameretta, intento a fare la mia preghiera; nella cameretta entrava il debole lume dei fanali della strada. In quella solitudine l'anima mia si sentiva sola nel mondo, e con tutte le forze imploravo il Signore che mi soccorresse, che mi aprisse una via secondo il Suo beneplacito.
A un tratto vidi una luce che uscì dal Crocifisso e s'irradiò nella camera, così intensa, come se fosse stata prodotta da una lampada elettrica di mille candele. Quindi il Crocifisso aprì la bocca e mi disse a voce alta " Sta tranquillo, che sono esaudite le tue preghiere, non come tu vuoi, ma come lo voglio. Soffrirai degli spasimi e dei dolori e porterai tante anime al Mio Cuore ".
Fu un momento, poi tutto ritornò nella penombra e nel silenzio. Io non so se questo sia stato una mia autosuggestione, una mia allucinazione, il diavolo stesso che abbia voluto farmi un giuochetto, ma io, fedele alla voce della mia coscienza che mi impone di dire null'altro che la verità, racconto il fatto com'è avvenuto. Le Autorità competenti, le persone che capiscono più di me ne facciano il giudizio che vogliono.
L'indomani di tale fatto venne a trovarci una ex suora Domenicana, certa suor Angelina Giorda, chiedendo asilo, perché, dopo essere stata espulsa dal monastero non sapeva adattarsi nel secolo. Io e la mia compagna decidemmo di porre a sua disposizione tutte le nostre risorse, di mandarla a Mandas, dove avevamo una casa di nostra proprietà, perché potesse prodigarsi a sollievo dei poveri derelitti.
L'opera fu iniziata col consenso di S.E. Mons. Piovella, ma questa ex suora ed una sua compagna non fecero niente di buono a Mandas, tanto che per consiglio dell'Arcivescovo stesso le dovetti licenziare.
Non era quello il disegno del Signore intesi che Egli voleva che io stesso prendessi la croce, e con me la mia compagna, per andare dietro di Lui e che di ciò non potevamo delegare gli altri.
In quel tempo ebbi un'altra visione (allucinazione anche questa? Giudichino gli altri) il Crocifisso mi parlò nel medesimo luogo di prima, mentre si sprigionò la medesima luce. Mi disse "Vendi tutto quanto avete, se occorresse anche il tuo vestito e incomincia l'opera da Me desiderata e voluta".
L'animo mio, rifiutandosi di credere che fossi degno di tanto, entrò allora in grande combattimento a ore di ottimismo ne succedevano di desolazione in cui era quasi la certezza di essere caduto vittima di un'allucinazione, di una montatura infernale.
Mai palesai il fatto ad alcuno, neanche alla mia compagna, tranne che al Padre Ilario da Genova, allora mio confessore.
Considerando però che in ogni caso il bene non può offendere il Signore, qualora anche, per un'ipotesi, fosse stato consigliato dal diavolo, decisi di andare avanti. Con la mia compagna mi diedi subito a cercar compratori della nostra proprietà, e poiché, specie gli immobili, non si vendono in un giorno, come si vorrebbe, a prezzo equo, bisognò che si aspettasse per vari mesi. In quel periodo mi accorsi che tra i pigionali che occupavano le camere del la mia casa ve n'era qualcuno che si dilettava, diceva egli, per passatempo, di fare esperimenti di spiritismo unitamente a uno studente universitario che veniva per visita.
Io non ho mai creduto che lo spiritismo sia qualche cosa di positivo, ma semplicemente una truccatura atta a far girare la testa al prossimo. Pur considerando che gli stessi che se ne occupavano non manifestavano opinione del tutto discorde dalla mia, comunque, timoroso dei precetti espressi dalla S. Madre Chiesa in tale materia, perché tali cose non si ripetessero in casa mia, con vari i pretesti, sollecitai lo sgombero del predetto inquilino il quale poco dopo andò a trasferirsi altrove.
Non attribuisco a questo fatto alcuna importanza e l'avrei qui certo tralasciato se non fossero intervenute le chiacchiere di certuni a indurmi, in omaggio alla santa verità, a esporre le cose come sono.
Non sono mai stato cultore di spiritismo, e se in qual che tempo, per caso, fossi caduto in simile errore, non avrei in seguito esitato a farne umile confessione e penitenza, ricordando che il Signore perdonò a un S. Cipriano che, dice il Beda, era stato un fattucchiere e fervido adoratore del demonio.
Dico pure che la mia ossessione è la fede nel Crocifisso e la premura di vedere le anime salve. A me basta che i miei confratelli, in loro coscienza, possano affermare che dal primo giorno in cui è stata fondata la Comunità sino ad oggi, non abbiano mai assistito a pratiche spiritiche e che in Comunità non si riconosca altra teoria che non sia irradiata dal Sacro Cuore di Gesù e dalla Sua Chiesa.
Intanto io parlavo della necessità della fede a dei conoscenti alcuni di essi mi diedero ascolto e ne condussero a me degli altri, si che la mia casa in quel tempo, 1924, fu ogni sera ritrovo di persone che si avvicinavano alla fede, specie impiegati e studenti universitari, alcuni dei quali non avevano nascosto fino allora la loro professione d'ateismo. E quando la sera, all'ora della preghiera, accogliendo il mio invito, vedevo genuflessi davanti al Crocifisso tanti giovani, tra cui qualche massone che forse s'inginocchiava per la prima volta, la mia commozione giungeva al colmo e dicevo nel mio cuore " Signore, non io, ma Tu li hai convertiti, custodiscili Tu perché nessuno si perda
Non tutti quei giovani poi rimasero costanti, ma alcuni mi dovevano seguire e furono i miei primi confratelli.
Pensando poi che ciò che più urge è la salvezza di un'anima prossima a presentarsi a Dio, sentii la necessità di accorrere al capezzale di malati gravi colti da infermità che non perdonano e trovai in ciò consolazioni indicibili. In quel tempo però il Signore volle provarmi ancora, alcuni seminarono la zizzania tra i neo convertiti e ventilarono sul mio conto le più atroci e umilianti calunnie. Alcuni si scostarono per rispetto umano, altri in maggior numero ne vennero e fu Un affluire continuo di gente.
Si era nel 1924 e in quell'anno fui invitato dal Rev. Matzeu nella sua parrocchia a Pabillonis, per il tramite del Rev. Tocco, vice Parroco a S. Gavino, che mi scrisse varie lettere. Si voleva che io porgessi parole di conforto a una Signorina diciannovenne ch'era da otto anni muta, tal Maria Cherchi, di Francesco. Nell'intento di farle riacquistare la salute i genitori non avevano badato a spese e costei s'era dovuta sottoporre a tutte quel le cure prescritte dai medici, che, per quanto lunghe, riuscirono vane, nonché a un'operazione dolorosa, in cui, con un bisturi, le era stata praticata un'incisione alla cute lungo la colonna vertebrale.
Alla prima lettera d'invito del Rev. Tocco risposi di non poter aderire, dicendo che lungi dall'essere in grado di recare conforto agli altri, non ero neanche capace di confortare me stesso. Venne a trovarmi nella mia casa di Cagliari il fratello del Rev. Tocco, Signor Andrea, impiegato presso il R. Museo Archeologico di Cagliari, il quale mi rimproverò di non aver ubbidito a un Sacerdote e che non era questo un buon operare di vero cristiano, e, tra il burbero e lo scherzoso, mi minacciò che mi avrebbe condotto per forza alla stazione.
Di fronte a tanta insistenza di due Sacerdoti, cedetti, presi il treno, dopo aver pregato il Signore, che, considerando la mia nullità perfetta, mi ponesse quelle parole sulle labbra, che potessero recare conforto alla poveretta. Giunsi a S. Gavino, e, con i Reverendi Tocco e Casu, mi recai in calesse a Pabillonis dove, in casa dell'ammalata, ci attendeva il Rev. Matzeu. La madre di costei, con le lacrime agli occhi, mi parlò della sventura della sua unica figlia cui nessuna cura aveva recato giovamento.
Risposi esponendo questi principi fondamentali ben noti alla S. Madre Chiesa, esprimendomi presso a poco così: " Non dobbiamo avvilirci nelle sventure, che il Signore si ricorda delle anime buone con delle croci pesanti le quali non sono un male, poiché favoriscono la nostra redenzione. Stiamo di buon animo, sottomessi e rassegnati al divino volere, poiché ciò è la prima condizione per attirarci le grazie del Signore. Bisogna implorare il divino soccorso con la preghiera frequente, poiché il Signore disse " Bussate e vi sarà aperto " Egli, se non oggi, domani, darà il balsamo, altrimenti sia fatta la Sua volontà. Intanto domani la giovinetta vada in Chiesa, implori a Gesù Sacramentato il riacquisto della favella perduta e dica pure " Gesù, se ciò non fosse per il bene dell'anima mia, lasciami pure come sono, meglio è che io entri in Paradiso muta che con la favella cada nel fuoco eterno.".
Il Rev. Matzeu che era lì presente ed ascoltava con la testa un po' china, non mi parve soddisfatto del mio consiglio riguardo alla Comunione da farsi all'indomani. Mi disse che alla Comunione l'inferma soleva accostarsi ogni Domenica, dopo aver scritto, per la confessione, i peccati su un foglio di carta che tosto veniva bruciato, e che pure, a Gesù non era piaciuto ugualmente di concedere la sospirata guarigione.
Gli risposi "Non ha detto il Signore " Chi ha fede comandi ai monti e questi cammineranno?" "Ella, Reverendo, può in ciò essermi maestro e sa più di me che Gesù può concedere in un momento ciò che non ha concesso in cento anni, altrimenti sia fatta la Sua volontà; l'ammalata sarà sempre contenta di averlo ricevuto una volta di più".
Finito questo dire ritornai a S. Gavino con i Reverendi Tocco e Casu. Il mattino seguente la povera muta si recò in chiesa, il Rev. Parroco le diede la Santa Comunione e si ritirò poi subito in sacrestia onde togliersi i paramenti. La muta aveva riacquistato la favella, la sua lingua, che era stata per otto anni impotente ad articolare una sola sillaba, si era finalmente sciolta e parlava. Ella esclamò: "Gesù Sacramentato mi ha concesso la grazia!" E si diresse in sagrestia ove rivolse la parola al Parroco che l'accolse sorpreso, in preda alla più viva emozione, e subito pensò di accompagnarla alla casa paterna.
La notizia di questo fatto, dopo qualche ora, giunse confusamente a S. Gavino e subito dopo fu confermata, che verso le 10,30 arrivò in carrozza la graziata in compagnia dei genitori e del Rev. Matzeu.
Invitato a recarmi a Pabillonis unitamente ai due Sacerdoti che mi avevano accompagnato il giorno prima, invano tentai un rifiuto, i tre Sacerdoti m'imposero l'ubbidienza, Il padre della Cherchi tentò di farmi accettare un compenso, come se fossi stato io a fare qualche cosa, dichiarandosi disposto a dare qualunque somma. Risposi con un cortese ma fermo rifiuto, manifestandogli che io nulla avevo fatto, che non potevo, non dovevo ricevere compenso per un prodigio fatto da Gesù Sacramentato e che avevo anch'io bisogno, come la figlia, del divino soccorso. Gli consigliai di ringraziare Dio del favore ricevuto e di dare una elemosina ai poveri.
Il Cherchi allora fece celebrare una messa con l'esposizione del Santissimo. Volle che si fosse ammazzata una vacca in casa sua, alla cui distribuzione parteciparono le persone più ragguardevoli del paese.
In quella occasione fu un affluire tale di gente, anche dai paesi vicini, per la santa Messa, che il parroco disse di non averne mai vista tanta in Chiesa avvicinarsi ai Sacramenti; erano in tre Sacerdoti e furono costretti a chiamarne un quarto da un paese vicino.
Ho esposto dettagli ed ho fatto dei nomi perché chi vuole, abbia il modo di fare dei rilievi per accertarsi se si tratta di un fatto concreto o immaginario. Intervenne in quell'occasione, come in altre simili, il giudizio dei medici, specie quello del medico condotto di Pabillonis, il quale sostenne che la guarigione da altro non dipendeva se non da una suggestione dell'ammalata. Io non voglio entrare in merito a questo, per conto mio, giudichino come vogliono, sia suggestione o no, poco interessa, a me occorre raccontare il fatto com'é avvenuto, al lume della fede, posso dire che quando il Signore vuole, si serve a Sua maggior gloria, anche d'un filo d'erba, di uno zampillo d'acqua, e, tutte le cose, anche gli effetti della presunta suggestione, se fosse il caso di parlarne, dipendono da Lui, perché non cade foglia se Dio non voglia.
Espongo questo racconto serenamente, dato il carattere di confessione segreta del presente scritto, osservando che detto fatto, unitamente ad altri consimili che tralascio per brevità, è stato il punto di partenza che ha dato pretesto a certi di parlare, attribuendomi pretese di taumaturgo che io non ho mai avuto e che ho in orrore, poiché tale pretesa basterebbe da sola a qualificare un'anima dannata.
Mi si addebita di essermi recato in giro a visitare gl'infermi. Ci sono tanti buoni cristiani facenti anche parte di congregazioni religiose, che si recano al capezzale degli infermi per largire la loro elemosina e confortarli alla rassegnazione, né credo per questo che dispiacciano il Signore. Per me questo fatto doveva costituire una causa di disprezzo e di colpa, né di questo disprezzo mi dispiaccio, perché, come sotto le armi in guerra, ho preferito fare l'infermiere a Lisiera, a Porto Maurizio e a Cagliari, per fare del bene agli ammalati, cosi da buon cristiano secolare ho amato ed amo, con tutte le forze dell'anima mia, di venire incontro agli infermi non solamente nello spirito ma anche nel corpo.
Non ho mai avuto un ricettario né tanto meno venduto delle guarigioni, come taluni hanno malignato. Se una cosa mi duole è che in seguito, con la costituzione della Comunità, per causa delle cure che essa richiede, ho dovuto abbandonare questa pratica di carità. Le lettere di tanti malati, che conservo in archivio, testimoniano, e chiunque può rilevare da esse il livello spirituale delle mie relazioni con loro.
Dopo tante ricerche furono trovati dei compratori della nostra proprietà la casa di Cagliari, che ci fruttava una rendita di circa mille lire mensili, fu venduta a tal Federico Atzori da Guasila per £.75.OOO, così fu venduta l'altra proprietà a S. Sperate a tal Boi Peppino, altri terreni a Mandas a certi Genesio Ferdinando e ad Orrù Antioco ecc.
Per non dilungarmi dirò che tutto fu venduto, spogliandoci d'ogni avere, lasciando solo una casa a Mandas con orto attiguo, luogo prescelto per fondarvi l'opera.
Nell'anno 1925 eccoci finalmente a Mandas per dare inizio alla ricostruzione e ampliamento della casa che doveva costarci 250.000 lire circa. Presi con me tre giovani uno, Luigi Musio, Ragioniere e studente nel terzo anno universitario, di anni 26, che, convertito in quel periodo di tempo alla fede cattolica, volle smettere gli studi, lasciare il mondo e le sue lusinghe, per dedicarsi al servizio del Signore. Fu secondo, Picciau Peppino, che poco tempo prima era stato sul procinto di dover subire l'amputazione di una gamba e che per mia esortazione, avendo fatto ricorso al Sacro Cuor di Gesù, ottenne la grazia della guarigione. Un favore celeste così sorprendente l'aveva risolto di far parte della Comunità.
Il terzo fu un orfano di 16 anni, un certo Degioannis Lullucio, giovane intelligente e svelto che volle come gli altri due consacrarsi al Signore. Finita la casa vennero altri di cui nomino i primi Filiberto Melis, sarto, Spiga Anselmo, studente nell'istituto Tecnico Superiore, i due fratelli Prunas Ugo e Davi de, Atzeni Antonio, Sollai Felice, Carta Antonio, ecc.
Il 5 Giugno 1930 sorse una Comunità a Cagliari presso la sede della Confraternita di S. Giovanni, sempre col consenso di S.E. Mon. Piovella. L'8 Dicembre dello stesso anno sorse pure a Cagliari un'altra succursale nella casetta appartenente al la chiesa antica di S. Rocco, dataci in uso a tale scopo dal suddetto Arcivescovo di Cagliari e oggi ritoltaci.
Nel Gennaio del 1931 si costituì una Comunità a Donigala Siugus e ne fu capo, come superiore locale, il ragioniere Luigi Musiu che fungeva da Segretario Comunale di quel Comune, sede che, dopo due anni, fu soppressa per ragione di salute del detto superiore, non avendo altri per sostituirlo. Nell'Agosto del 1932 si eresse una succursale a Guamaggiore e ne fu superiore locale il Signor Anselmo Spiga, sede in cui l'Arcivescovo di Cagliari venne a visitarci. L'8 Febbraio 1934, pure a Cagliari, sorse un'altra Comunità in Via Piccioni n.7 piano secondo.
Finalmente nel Febbraio del 1934 sorsero ad Oristano altre due Comunità, presso la Città, nel modo in cui dirò appresso.
Accenno ora brevemente con sguardo retrospettivo ai primi anni della Comunità di Mandas. Mi dedicai con tutte le forze dell'anima alla formazione dei giovani ch'erano venuti con me, e, preoccupato di non deviare dai precetti della S. Madre Chiesa Cattolica, scelsi un sistema che non poteva fallire come teoria, come pane morale e religioso scelsi i libri di lettura spirituale approvati dalla S. Chiesa, come i sei volumi del Rodriguez e di S. Alfonso M. De'Ligori, il martirologio e le vite dei Santi del Beda ed altri autori.
Prescrissi le preghiere assidue, la frequenza ai S.S. Sacramenti ed alla Santa Messa presso la Chiesa parrocchiale, ricorrendo di frequente al consiglio del Rev. Parroco. Come vita pratica quotidiana mi tenni sempre a questi cardini il lavoro fatto per piacere a Dio e preghiera, e imposi perciò ai miei confratelli la fatica e l'opera da cui trarre i mezzi di sussistenza per noi e per beneficare i bisognosi. Dissi sempre ai confratelli che dal labirinto di questo mondo non si esce se non seguendo il Lume del Signore il quale si serve del suo Rappresentante e dei suoi Ministri. Imposi infine i tre vincoli di castità, povertà e ubbidienza.
Tra i miei confratelli vennero, con qualche professionista, degli operai, muratori, contadini, falegnami, sarti, calzolai ecc. Ognuno esplica la sua attività secondo la propria capacità.
Volli sin dall' inizio abolire ogni differenza di trattamento tra i confratelli e dare la precedenza alle virtù cristiane e in secondo luogo all'istruzione.
La mia compagna, per quanto malaticcia sin dalla nascita, volle anch'essa, oltre che col suo avere, contribuire con la sua attività. Essa mi disse "Tu non potrai nella Comunità allevare dei bambini orfani di due o tre anni, ciò non é compito di uomini, occorre che ci sia una donna che faccia le veci della madre defunta; dividiamo il lavoro, si dedichi un appartamento esclusivamente per me ove terrò cura degli orfanelli con l'assistenza di due signorine che vorranno consacrarsi al Signore, così, con l'aiuto di Dio, con la tua direzione, faremo del bene a tanti poveri bambini e a sette anni li consegneremo a voi uomini che ne curerete l'istruzione elementare e l'avviamento a un mestiere."
Fu subito data attuazione a questa proposta, facendo anche, per le donne, un piccolo regolamento. Si accettò la domanda di tre Signorine e furono accolti degli orfani sebbene in numero limitato, una ventina, secondo le nostre possibilità finanziarie e l'apporto ad esse dato anche dal lavoro dei nostri confratelli.
Fin dall'inizio mi avvicinai al Parroco locale di Mandas, Can. Dessì, il quale vide tutto dal suo sorgere, e, messo a giorno del fine dell'opera, e dei nostri primi passi, rimase in tacita attesa.
Essendo egli l'unica autorità ecclesiastica del paese da dove l'opera non si propagò se non dopo sei anni, mi pare utile riassumere in brevi cenni le relazioni che ebbi col medesimo.
Egli veniva di frequente a farci visita e i nostri rapporti non uscivano da quell'atmosfera di deferenza da parte mia e di consenso da parte sua. Per vani anni anzi egli acconsentì che s'insegnasse in Comunità il catechismo ai ragazzi del paese. Questi rapporti però dovevano turbarsi (estranea in modo assoluto la mia volontà ) per pretesti, secondo me, ingiustificabili. Poiché il Can. Dessì, forse per ragioni di malattia, essendo affetto, a giudizio dei medici, da nevropatia, non faceva in Parrocchia il mese Mariano, decisi di recitare in Comunità il rosario, le litanie, con qualche canto alla Vergine, non escludendo chi del vicinato avesse voluto intervenirvi spontaneamente, e ciò previo consenso del Parroco stesso.
Le preghiere del mese di Maria ebbero inizio verso il 15 Maggio dell'anno 1929 e il Can. Dessì stesso venne a visitarci mentre si recitava il rosario, in compagnia del Rev. Ignazio Piras, Presidente della Parrocchia di S. Giacomo di Cagliari, non mi fece alcuna osservazione, anzi si dimostrò contento. La Domenica seguente però, durante la Messa, all'ora della spiegazione del Vangelo, egli si mise a parlare quasi apertamente contro di me, dipingendomi come il peggiore degli uomini, un essere pericoloso, quasi scomunicato. Perché tale metamorfosi? Dal modo di parlare del suddetto capii una sola cosa: vedendo un numeroso concorso di parrocchiani al rosario, egli temette in ciò una diminuzione del suo prestigio, quasi un tacito rimprovero perché aveva tenute chiuse le porte della Chiesa per le funzioni Mariane. Da quel tempo fu un succedersi di azioni ostili, alternate da qualche rappacificamento verso il quale ho sempre teso, non badando a umiliazioni. Tante volte mi recai da lui invitandolo a casa perché indagasse e controllasse tutto, ma egli, fedele al suo proposito varie volte manifestato, un giorno mi disse che frati e preti nella sua Parrocchia, per quanto Dio gli avesse dato vita, non li avrebbe mai tollerati, e, senza salutarmi mi voltò le spalle e se ne andò.
Mi risulta da indubbia fonte che non tralasciò mai occasione per gettare il discredito sull'Opera, sia col mandare frequenti lettere di accuse all'Ordinario diocesano di Cagliari e al suo Vicario, sia col seminare la diffidenza tra la popolazione del paese. Giunse persino a proibire ai praticanti di venire in casa mia anche per ragioni di lavoro, minacciando di togliere loro la Comunione.
Non ho alcun rancore verso di lui che si è palesato nemico dell'Opera e dico che mi sorprendevano anche i suoi rabbonimenti improvvisi un giorno, avendo invitato a pranzo il Padre Emiliano, cappuccino, (venuto a Mandas per una predica) in presenza del Can. Dessì, per naturale senso di deferenza, estesi l'invito anche a lui, che, con mia sorpresa, dirò assai gradita, perché segno di pace, accettò. Tale accettazione era contraria alle sue usanze, avendo egli stesso dichiarato che era la prima volta che a Mandas aderiva a un simile invito. In questo riavvicinamento aveva posto una buona parola il suddetto Padre Emiliano, come egli stesso mi riferì. Ma poco tempo durò la pace, poiché, senza pretesto alcuno, il Can. Dessì preferì piuttosto usarmi una spietata avversione.
Nel 1927 vennero a Mandas le Sante Missioni in preparazione della visita pastorale; i missionari erano tre il Rev. Ignazio Piras, Presidente della Collegiata di S. Giacomo a Cagliari, il Rev. Migoni, Parroco a S. Anna a Cagliari e il pio e dotto missionario il Signor Serravalle.
Condussi tutti i confratelli, compresi gli orfani, la mattina e la sera ad ascoltare i dotti predicatori e tutti aprimmo loro il nostro cuore.
Ricordo che il Rev. Piras, mi fece sostenere un minuto interrogatorio in una confessione durata tre ore. Mons. Piovella fino a quell'occasione non mi era sembrato contento dell'Opera, sebbene, quando andai a partecipargli il suo inizio, non me ne avesse mosso rimprovero.
Appena arrivato a Mandas l'Arcivescovo si dimostrò entusiasta delle relazioni fattegli dai missionari. Alla mattina del suo arrivo, dopo le sacre funzioni, mi accolse col sorriso sulle labbra, con paterne parole d'incoraggiamento e mi disse; "Dopo pranzo venite tutti i confratelli nella canonica perché desidero parlarvi". Così nel pomeriggio egli ci fece entrare nella camera a lui riservata, ove ci fece varie domande, quindi domandò a noi tutti quale titolo volessimo assumere per la nostra Comunità, ed io risposi: "Eccellenza, sono figlio del Sacro Cuore, tanta devozione ho per Lui ..." E S.E. interrompendomi mi disse "Basta, il titolo è questo "Compagnia del Sacro Cuore" siete contenti ?
All'indomani, pubblicò al popolo di Mandas che esisteva una Comunità religiosa intitolata "Compagnia del Sacro Cure" esortandolo ad approffitarne e raccomandando gli uomini cattolici di andar lì a costituirvi la loro sede. Durante il periodo della visita pastorale S.E. volle che i nostri confratelli facessero assistenza al Pontificale e in quell'occasione venne a visitarci in Comunità. Ripeté la visita poco tempo dopo, manifestando espressioni di approvazione nella circostanza di una riunione di Plaga dei Circoli cattolici alla quale fummo invitati, e ove, dietro incarico, tenne un breve discorso anche un mio confratello.
In un tempo successivo un nostro membro, come ne attesta un documento di nomina, fu delegato ufficialmente per la riorganizzazione dei Circoli di diciotto Comuni comprendenti la Plaga di Mandas.
Il Can. Dessì però, che durante la visita pastorale ave va taciuto, si dichiarò subito dopo ostile ai Circoli e fece di tutto per minarne l'esistenza, vietando ai circolini di frequentare la sede.
Fu così che il circolo di Mandas, che era giunto a sessanta iscritti, che fu visitato anche da S.E. Mons. Cogoni, allora Vicario Generale a poco a poco fu reso deserto.
Forse la nevropatia tormentava troppo il parroco, tanto che in quello stato, dimenticò persino di avversarmi, e, insolitamente rabbonito, mi chiamò a casa sua, pregandomi di condurlo a Lanusei, dove aveva ideato di recarsi, sperando di usufruire dei benefici di quell'aria finissima. Gli risposi che ben volentieri ero disposto ad accompagnarlo, però che i tanti miei orfanelli m'avevano ridotto povero per potermi prendere il lusso di fare quel viaggio. Egli allora, aperto un tiretto, mi consegnò duecento lire, dicendomi " Ci penso io per le spese del viaggio." Socchiusi gli occhi ed accettai, dicendo tra me "Signore, questa è un'opera di carità ed io non posso rifiutarmi".
Stetti otto giorni con l'infermo a Lanusei, gli fui di amorevole sostegno e fu necessario che io dormissi nella stessa camera. Taccio per delicatezza certe stranezze del Can. Dessi. La condizione fisica è nota a S.E. Mons. Miglior, Vescovo di Lanusei, al quale rendemmo due visite, come pure al Can. Puddu di quella diocesi.
A viaggio finito, alcuni mesi dopo, il Can. Dessì, trovandosi migliorato, credete opportuno aggiustare i conti e reclamare le duecento lire.
Il Mons. Ligas, Vicario Generale a Cagliari, cui ricorsi per un parere, mi consigliò di resistere a quella richiesta.
Spiegai al Can. Dessì che quella somma era servita per lui stesso, che ci avevo rimesso di tasca, che a rigore ero il creditore per il servizio resogli. A nulla valsero le mie buone ragioni, dovetti restituirgli ciò che avevo speso per lui stesso. Lo feci per l'amore della pace, ma fu una pia speranza.
Se io dovessi narrare tutte le vicende dovute alle incoerenze degli uomini, alle metamorfosi del mondo, non basterebbero tanti volumi.
Accetto ormai di buon animo i contrasti, non si vive senza di essi, è il Signore stesso che ce li dà: in qualunque modo Egli si serva, sempre ci saranno avversioni da superare che partono dal secolo, da un'Autorità o dall'altra. Il Signore per primo ce ne ha dato l'esempio. Che cosa sono io? Una nullità perfetta. Dovrei forse lagnarmi?
E' stato sempre mio impegno di cercare, per l'opera, l'appoggio morale del Clero e in particolar modo il consiglio degli Ordinari diocesani.
Ebbi l'onore di ricevere ancora un'altra visita a Mandas di Mons. Piovella, il quale, nella sua paterna bontà, si degnò di venire a trovarci altre due volte neI 1932 nella nostra sede di Guamaggiore.
Due anni dopo apparve nel Monitore ufficiale dell'Episcopato sardo n.1 del 10 Gennaio 1934 il seguente comunicato: "Questo Ordinario, ricevendo tratto tratto richiesta di informazioni circa i giovani che vivono in Comunità a Mandas e in alcuni paesi dell'Archidiocesi, dichiara, a scanso di malintesi, che detti giovani, pur menando vita corretta, vivendo del loro lavoro e facendo quel bene che possono, non sono una Comunità approvata dalla S. Chiesa e non possono perciò vestire abito che abbia del religioso. Il loro operato è tutto sotto la loro responsabilità".
Precedentemente al suddetto comunicato, a Guamaggiore, in occasione della visita pastorale avvenuta nel 1932, S.E. Mons. Ernesto Maria Piovella, Arcivescovo di Cagliari, trovandoci al suo arrivo con l'abito da me confezionato, del tutto originale, si dimostrò tanto contento, che suo primo pensiero fu, a quanto manifestò al Parroco locale Rev. Sig. Antonio Argiolas, di fare una visita alla nostra Comunità. Infatti, finita la cresima, verso le 11; le 11 e mezzo del mattino, si compiacque di venire a trovarci col suo seguito, cioè col Can.Cerimoniere Rev. Putzu, coi missionari Rev. Sig. Beniamino Palmas, i Reverendi Parroci di Guasila e di Selegas e il Rev. Sig. Cappai, Parroco di Ortacesus.
S.E. fece cenno ai suoi Sacerdoti di accomodarsi nel salottino della casa, mentre Egli, invitando me e i confratelli, si diresse verso la Cappella, e dopo aver fatto una breve preghiera, entrò in sacrestia ove mi disse che voleva interrogare tutti, e, incominciando da me, a uno a uno, udì tutti i confratelli.
Questa visita, che si può dire canonica, durò due ore, quindi S.E. ci chiamò tutti in sacrestia, ove, con visibile soddisfazione e contentezza che trasparivano dal suo volto, ebbe per noi parole di compiacimento e d'incoraggiamento dicendoci : "Io sono il vostro papà, se non vi avessi voluto bene non sarei venuto a trovarvi, continuate nella vostra missione, lavorate a gloria di Dio e fate del bene, in una parola, santificatevi".
S.E. si dimostrò anche contentissimo quando interrogò i cinque o sei piccoli orfanelli che erano in casa, il più grande di otto anni, sul catechismo, e tanto rimase soddisfatto della preparazione dei suddetti bambini che li premiò con immaginette che diede a me per offrirle a loro.
S.E. gradiva alla sera che i confratelli, quattro in cotta e gli altri in abito, l'accompagnassero per la benedizione del nuovo Cimitero.
In Chiesa volle che io e i confratelli disponessimo a gruppi i bambini per prepararli alla santa Comunione.
In considerazione di quanto sopra non mi diedi tanto pensiero del comunicato del "Monitore" in quanto l'abito non si indossava se non in Casa e per andare in Chiesa ogni giorno a fare la santa Comunione e non ne sentii alcuna amarezza, anzi ringraziai Iddio che sempre si ricorda di me, povero peccatore, col mandarmi delle prove e unitamente ad esse, la rassegnazione, non guardando ai miei demeriti, per superarle.
Il mio desiderio e la mia intenzione sono di attirare anime al Signore secondo la mia capacità con l'aiuto divino, fare del bene quanto mi è possibile, sapendo che il Signore vede tutto e che solo Egli può dare a ognuno la giusta mercede.
S.E. Mons. Piovella è stato sempre un uomo di Dio, un degno Pastore di Gesù Cristo nelle nostre diocesi, e ha inspirato sempre bontà, amore e fede al le sue pecorelle, ma, dico secondo il mio discernimento, non tutto può vedere e toccare, controllare e giudicare personalmente. E' costretto talvolta ad agire secondo quanto altri dicono, fidandosi di questi messi, senza sapere che essi siano in buona o mala fede, avendo un compito abbastanza vasto nella sua alta missione, ed essendo uomo anche lui, per quanto dotto, tutto non può abbracciare.
Mi risulta che a S. Eccellenza, sono giunte nel passato delle ambasciate talora favorevoli, talora avverse al la nostra Comunità, e a seconda del succedersi di queste, si è mostrato con noi tutto sorridente e pieno di premura, oppure un po oscuro in volto ed ha dimostrato diffidenza e quasi risentimento.
Così da quindici anni, dacché ho avuto l'onore e la fortuna di conoscere S.E. Mons. Piovella e ho parlato e chiesto a lui consigli, ho visto verificarsi queste alternative, cose che nella mia fede attribuisco a disposizioni del Divino Volere, senza che egli ne abbia la minima colpa.
Espongo un fatto che per me costituisce un'enigma: alcuni anni or sono (se non erro nel 1930) stante il rincrudirsi della malattia del Can. Dessì, fu mandato a Mandas, per reggerne per breve periodo la Parrocchia, il Rev. Dott. Sitzia, Parroco di Assemini. Questi mi confidò di aver trovato nei registri dei Battesimi un decreto Arcivescovile di riconoscimento dell'Opera in cui si davano ad essa anche delle incombenze riguardo all'azione cattolica. Non ho potuto mai rendermi conto del perché tale decreto non mi sia stato mai consegnato.
In mancanza del decreto suddetto io credetti di essere dinanzi a un altro riconoscimento implicito, il giorno che mi pervenne la lettera di S.E. in cui ordinava che la Comunità di Mandas avesse per Direttore spirituale il Can. Dessì e quella di Cagliari il Rev. Can. Piras Ignazio.
Mi recai subito con tale lettera dal Can. Dessì, ma egli, dopo averla letta, per tutta risposta me la buttò sdegnosamente in grembo. Eravamo in Chiesa e mi rassegnai a quell'atto; dopo aver fatto ringraziamento al Santissimo stavo per uscire, quando il Can. mi richiamò e mi chiese la lettera, la rilesse e me la diede dicendomi "A lui vien bene scrivere così, ho altre cose da pensare" e senza salutare se ne andò.
Nel 10 Febbraio 1934 mi pervenne a Mandas un telegramma dicente "Urge la sua presenza per il bene del la sua opera". Esso veniva da Oristano. Mi recai colà e lì appresi di che si trattava, mi si offriva per l'opera un oliveto presso la frazione di Donigala Fenughedu in zona S. Petronilla. L'offerente Signora Maria Denti, moglie di Giuseppe Manunta, che non avendo figli, aveva da tempo ideato di fare tale offerta al Signore, e, informata per caso del la nostra opera, aveva deciso senz'altro di fare della sua lodevole intenzione, un fatto compiuto.
Fu in seguito a tale offerta che decisi di propagare la nostra opera ad Oristano, residenza al la quale non avevo sino allora pensato.
Volli tuttavia, prima di uscire dalla diocesi di Cagliari, chiedere consiglio a Mons. Piovella, che mi disse che occorreva d'una buona volta finirla, che gli presentassi i documenti necessari: regolamento, amministrazione ecc. perché voleva mandar tutto con sollecitudine alla S. Sede.
Mi disse che scegliessi un Sacerdote che prendesse la responsabilità e la cura della nostra Opera, consigliandomi allo stesso tempo il Can. Lai Pedroni al quale avrei portato anche il regolamento perché lo esaminasse. Il Can. Lai Pedroni, presso il quale subito mi recai, si dichiarò disposto ad accettare con la riserva di avere prima un colloquio con l'Arcivescovo per sapere con precisione il suo incarico.
Alcuni giorni dopo mi disse in altre parole "Sono stato da S.E. il quale si è mostrato nuovo del tutto della cosa e m'ha detto di non aver dato alcun ordine al riguardo; mi lascia la facoltà di occuparmene, ma per conto mio". In quanto al regolamento che gli avevo portato disse che andava benissimo, che non c'era da ritoccarlo se non un po nella forma.
Chinai la testa, ringraziai il Can. del suo amorevole interessamento, e, recatomi di nuovo da Mons. Piovella, senza dolermi di nulla gli dissi "Eccellenza, ho deciso di andare ad Oristano senz'altro".
Egli un po infastidito mi disse "Giacché vuole andare ad Oristano, vada pure e faccia tutto là" Gli baciai il sacro anello, chiesi la santa benedizione e mi recai dal Vicario Generale Can. Ligas, il quale mi accolse con gentilezza e col sorriso, come sempre, ma saputo il mio proposito rimase un po pensieroso, e, dopo una lunga pausa mi disse "Giacché vuole andare ad Oristano, vada pure, però quando si presenterà a quell'Arcivescovo, non si sbottoni tanto, dica che le pratiche riguardanti la sua Comunità sono già state inviate dal nostro Arcivescovo alla S. Sede".
Ai primi del mese di Maggio del 1934 fu dato inizio alla costruzione della nostra nuova casa nell'oliveto in regione "S. Petronilla". Non mi recai subito da S.E. il Mons. Arcivescovo di Oristano per vago timore di non essere ricevuto, dato che molti mi avevano detto che rare volte dava udienza ai secolari (informazioni che dopo mi sono risultate infondate) e poi perché speravo che con i lavori un po avviati, avrei avuto anche la testimonianza delle opere e non solo l'appoggio delle parole.
Intanto tra il popolino ciascuno diceva la sua per taluni eravamo dei protestanti che invadevano il campo spirituale d'Oristano, per altri non si trattava se non di un conte milionario che aveva acquistato tutti gli oliveti di "Santa Petronilla", per altri dei maghi, dei fattucchieri, dei perseguitati dalla giustizia, che, esclusi dall'abitato, cercavano di sistemarsi in campagna. Altri ancora soggiungevano "E' venuto un Santo eremita che fa degli strepitosi miracoli come un taumaturgo, dorme all'aperto senza coperte e non mangia mai".
S.E. Mons. Delrio, pur avendo sentito parlare di questa società, non volle dare il suo giudizio, ma attendeva. Egli, a quanto mi hanno riferito, indagava attentamente e pensava: "Se questi son Cristiani Cattolici, non potranno fare a meno di presentarsi all'Arcivescovo, se al contrario non si faranno vedere, allora non saranno in regola con la Chiesa Cattolica".
Il primo a spaventarsi fu il Rev. Don Luigi Maggioni, Parroco di Nuraxinieddu, autista di S.E. Reverendissima, il quale, credendo che si trattasse di protestanti, volle scrivere, per sincerarsi, al Parroco di Mandas, Can. Dessi, il quale non so come lo informò.
Intanto era impellente il dovere e il desiderio di prostrarmi ai piedi di S.E. e chiedere il nulla osta per la mia opera nella sua Diocesi. Egli mi ricevette paternamente, con affabilità, mi fece varie domande su ciò che aveva sentito e volle avere una cognizione dello scopo della nostra opera, ed io gli manifestai l'anima mia.
S.E. il Mons.Arc. Delrio, che non par solito affidare del tutto le sue pecorelle alla custodia dei servi, volle, con santa prudenza sincerarsi del le cose, vedere e toccare personalmente, degnandosi, della sua innata bontà, di visitare la nostra opera incipiente, ove trovò i confratelli intenti ai lavori di muratura.
Il dotto e pio Pastore ci diede dei paterni consigli, incoraggiandoci nella fede e nelle virtù cristiane, indi ci diede (inginocchiati nella polvere) la santa benedizione.
L'Arc. Mons. Delrio, che non si contenta di vaghe informazioni, ma usa sottoporle a rigoroso controllo, ha voluto formarsi una cognizione esatta di tutte le cose che riguardano la nostra Opera, rendersi conto di tutto, in modo savio e prudente.
Noi, che siamo amici della verità, abbiamo gradimento che ci si giudichi in tal modo, dopo aver visto e toccato con mano.

PREGO CHE QUESTO MIO CENNO DI BIOGRAFIA NON SIA FATTO VEDERE AD ALCUNO, ECCETTO LA PERSONA CHE ME L'HA RICHIESTO, PERCHE' DESIDERO CHE IL PASSATO, COME L'AVVENIRE, RIMANGANO SOLO ALLA PRESENZA DI COLUI CHE TUTTO VEDE E SA GIUDICARE E DA CUI ATTENDO INFINITA MISERICORDIA. SEMPRE HO PREGATO CHE QUEST'OPERA VADA AVANTI SE DA DIO BENEDETTA, ALTRIMENTI SI DISTRUGGA SUBITO.


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Aggiornato il: 22 giugno 2005